Storie di mafia – Giovanni Motisi

Ninni Cassarà fu ucciso il 6 agosto 1985 da un gruppo di fuoco di Cosa Nostra. Uno dei killer era Giovanni Motisi, che oggi è probabilmente il latitante più ricercato d’Italia. Tra gli uomini che spararono, c’erano anche Giuseppe Giacomo Gambino, capo della famiglia di Resuttana, Nino Madonia, figlio del boss Francesco, Giuseppe Greco, Mario Prestifilippo, Agostino Marino Mannoia, Giuseppe Lucchese e Francesco La Marca. Secondo le rivelazioni del pentito Salvatore Cancemi, ex boss di Porta Nuova, l’assassinio del capo della sezione investigativa della Mobile, in cui morì anche l'agente Roberto Antiochia, fu richiesto direttamente dalla Cupola della mafia, dai vertici di Cosa Nostra e soprattutto da Totò Riina, Michele Greco, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia e Bernardo Brusca.

Quel giorno, si legge nelle memorie del Ministero dell’Interno, il vicequestore Cassarà, attorno alle ore 15.30, stava rientrando nella propria abitazione di via Croce Rossa per il pranzo, scortato <<da un’Alfetta blindata e da tre agenti di Polizia: Roberto Antiochia, Natale Mondo e Giovanni Salvatore Lercara>>. Una volta giunto all’abitazione e dopo aver salutato la moglie, Laura Cassarà, affacciata al balcone dell’appartamento, <<un commando di nove uomini, armati di kalashnikov>>, sparò, <<affacciandosi dallo stabile di fronte, in direzione di Cassarà>>, appena sceso dalla macchina blindata. <<Nell’agguato, furono esplosi più di duecento colpi d’arma da fuoco>>, che portarono alla morte del vicequestore Cassarà sulle scale di casa propria, spirato fra le braccia della moglie, accorsa per soccorrere il marito. Ninni Cassarà lasciò tre figli. Il commando che eseguì l’omicidio attese per ore che la vittima rientrasse a casa.

Giovanni Motisi restò un componente di assoluto rilievo di Cosa Nostra, agendo come sicario di Totò Riina. Posto come reggente al vertice del mandamento Pagliarelli, Motisi oggi ha 66 anni. Notizie recenti, poi smentite, hanno indicato come possa essere morto in Colombia per un tumore al pancreas, ma probabilmente si tratta della solita disinformazione. D’altra parte, è più verosimile che Giovanni Motisi abbia mantenuto un ruolo di spicco in Cosa Nostra, peraltro celato. C’è chi vede in lui un riferimento di vertice della consorteria, dopo l’arresto e la scomparsa di Matteo Messina Denaro. A Palermo, i suoi sostenitori sono numerosi.

25.05.2025

Alessandro Ceresa

Storie di mafia – Berlusconi, il cash, il carrello della spesa, l’Antitrust e i servizi deviati

 <<Quando c’era Berlusconi, i contanti venivano trasferiti con i furgoni, anche in altri Stati europei>>. La mia fonte spiega con dovizia il sistema di remunerazione dei costi per pubblicità, oggetto di fatture gonfiate per creare oneri deducibili in capo agli acquirenti degli spazi promozionali. <<Adesso, i suoi figli, non sono più disposti ad alimentare questo sistema. Prima, gli accordi prevedevano che a fronte di prezzi applicati in modo esagerato, una percentuale dovesse essere ritrasferita alla ditta che aveva comprato gli spot, in contanti>>. Ovvero, tutto in cash… e il pensiero non può non andare alle indagini riguardanti i fondi neri della Fininvest, che secondo alcune stime, negli anni, hanno superato 1 miliardo e 200 milioni di Euro. <<Questo sistema viene usato anche dalle associazioni e dalle società sportive dilettantistiche, a ogni livello. Propongono promozioni delle squadre a valori spropositati e ne restituiscono una parte, fino all’80%, in contanti. Chi sostiene la spesa ottiene dei costi deducibili e disponibilità di “nero”, che serve per altri impegni, come quelli degli straordinari dei dipendenti>>.



Però, questo è solo un aspetto di tutto il business delle televisioni. Sappiamo tutti delle frodi fiscali, con ingenti quantità di denaro sottratte all’erario con ogni espediente, fino ad arrivare ai capitali dirottati verso i paradisi fiscali esteri. Il mercato della pubblicità, in Italia, ha un indotto di miliardi di Euro, spartiti tra i pochi attori che compongono l’oligopolio. I prezzi degli spot, di conseguenza, sono maggiori di quelli di un settore che opera in regime di libera concorrenza e l’inefficienza si riflette in ultimo sui valori delle merci al consumo. Praticamente, la gente paga gli acquisti, direttamente posti nel carrello della spesa, a costi che comprendono una quantità spropositata di pubblicità e il surplus di inefficienza derivante dai margini elevati che permette l’oligopolio. Il costo della spesa diventa così esagerato. Ma non solo. Chiaramente, gli oligopolisti mettono in atto ogni tipo di comportamento, spesso scorretto, per difendere la loro posizione all’interno di questa struttura del mercato.

Tralasciamo le imbecillità che producono quei poveri ritardati mentali che affollano i programmi televisivi, i messaggi subliminali trasmessi tramite le frequenze, che invitano anche i ragazzini ad accelerare in macchina. Trattiamo argomenti più seri, come le concessioni. Mi ricordo esattamente come il gruppo Mediaset, in evidente violazione di ogni regola antitrust, disponesse di concessioni esterne, formalmente al di fuori dei confini giuridici delle proprie aziende, gestite da prestanome e da società quasi fittizie. In altri termini, Berlusconi, per proteggere i propri guadagni, aveva fatto incetta di concessioni televisive e le faceva gestire ai propri amici e collaboratori, tra cui Tarak ben Ammar. Controllando anche tramite Publitalia e imprese connesse, o collegate, anche il mercato degli spot promozionali, le scorrettezze si moltiplicavano, al fine di porre delle barriere all’ingresso insormontabili a difesa della posizione oligopolistica, nel silenzio dell’Antitrust.

Questo aspetto costituì uno dei motivi che ne originarono anche la decisione di entrare in politica. Con il placet di Craxi, oltre alla tutela dei propri interessi, la motivazione fu ascritta all’argine che si intendeva porre alla sinistra post-comunista, che trovò un supporto in un’ala dei servizi segreti ascrivibili al Pentapartito. Perché ogni partito disponeva dei propri servizi segreti: era nota la politicizzazione del comparto, che iniziava con le nomine di vertice. C’erano quelli della Dc di Andreotti, del Psi dello stesso Craxi… lo stesso Pci era organizzato con i propri adepti e referenti… persino la lega di Bossi in seguito costituì nel partito un proprio servizio, divenuto inesorabilmente deviato… e questo è un argomento da approfondire, perché riporta alle connessioni tra Stato e mafia, di uno Stato-mafia che fatica a svilupparsi in virtù anche del fatto che la classe politica e composta da ignoranti, da incompetenti. La politica degli ultimi 50 anni si è rivelata fallimentare e decadente. Perché infine è stato trascurato il modello di società valoriale, che assume gli ideali come priorità, ed è stato trasformato tutto in un sistema che fa pensare solo ai soldi, in cui gli individui diventano abietti, meschini e disonesti sol per “fare soldi”. Pavia docet.

Frammenti di guerra: Natanz e il programma atomico dell'Iran

 

Iran, agosto 2006 - La gente riempie lo spazio davanti al palco. La piazza di Teheran è gremita. La manifestazione esprime lo sdegno del popolo iraniano nei confronti del regime israeliano, che ha di nuovo aggredito il Libano. La guerra continua da alcune settimane. I bombardamenti di Tel Aviv non si fermano e mietono vittime. Alcune donne espongono le foto dei morti e dei feriti. Hanno il caratteristico velo sul capo. Piangono. Hanno posto alcune candele su degli altari improvvisati. 




Gli iraniani chiedono vendetta. Gli oratori fanno sentire la propria voce con i megafoni. Alcune immagini sono dedicate a Nasrallah, leader di Hezbollah, il movimento della resistenza libanese. Nell’ambito della Guerra al Terrorismo, vedo l’aggressione di Israele al Libano come un corollario dei conflitti in corso in Iraq e in Afghanistan. La folla è agitata. Mi muovo tra di loro. Faccio delle fotografie. L’illuminazione è scarsa. Sono l’unico bianco, occidentale, in mezzo a tutti gli iraniani, ma non riscontro problemi. Quando la gente inizia a diradarsi, seguo il flusso principale e rientro in hotel.

La mattina del giorno dopo, prendo un taxi e raggiungo la casbah, nel centro di Teheran. Non ci si può immaginare l’urbanizzazione della capitale come qualla dei nostri agglomerati. In un’ipotetica scala temporale, il livello di sviluppo dell’Iran è in ritardo di circa 30 anni rispetto a quello dell’Occidente e questo aspetto viene riflesso in ogni caratteristica del tessuto economico e politico. La casbah è formata soprattutto da un mercato coperto, posto nel basamento di un grande palazzo. Ai margini, ci sono delle bancarelle, ma la maggior parte del commercio si svolge nei negozietti all’interno, le cui superfici di vendita sono separate da vetrate. Guardo gli oggetti esposti. Non vi è nulla che mi possa interessare. Ho con me alcuni travellers cheques che ho acquistato in banca, in Italia, prima di partire. Devo cambiarli. Passo un po’ di tempo nei corridoi della casbah. Gli esercizi non sono molto frequentati. Al di fuori, alcune persone aspettano il collegamento degli autobus. Vedo alcune donne. Anche loro hanno il capo coperto, nel pieno rispetto della legge islamica. Fumo un paio di sigarette e mi metto a fissarle. Normalmente, i miei lineamenti sono apprezzati. In Iran, questo potrebbe essere considerato un comportamento inopportuno, ma mi piace sempre sfidare le regole anguste e desuete.



Quando rientro all’Hotel Enghelab, che mi ospita per un paio di settimane, recupero in camera tutti i travellers cheques che intendo cambiare e raggiungo uno sportello bancario in grado di eseguire l’operazione. Ottengo i Rials che mi possono permettere di affrontare i prossimi giorni. Dalla finestra della camera, vedo l’orizzonte urbano della città. Distinguo subito il palazzo dell’azienda di telecomunicazioni statale. Scatto alcune fotografie. Si tratta di un obiettivo strategico, che potrebbe essere colpito in caso di conflitto. Al tramonto, gli altoparlanti posti agli angoli delle principali strade diffondono la preghiera del muezzin. È armoniosa, melodiosa. La sera, passeggio nelle vie buie del quartiere. Quando mi risveglio, la mattina dopo, faccio un’abbondante colazione, che sarà l’unico pasto della mia giornata, e mi soffermo nella hall ad ascoltare i dialoghi di due italiani. Decido di presentarmi. Sono dei dipendenti della Rai. Gli chiedo che programmi hanno. Dicono che vogliono raggiungere Isfahan. Gli spiego che io intendo andare a Natanz.

Ci congediamo. Il tassista che ho ingaggiato mi aspetta davanti alla reception. È un uomo di circa 55 anni, con dei grandi baffi e la corporatura robusta. L’auto, di colore giallo, è antiquata e abbastanza scassata. Salgo sul sedile posteriore. Ho con me la macchina fotografica, i documenti e un coltello. Dalla mia posizione, posso agevolmente avere la meglio in caso di contrasto con l’autista. Avrei sempre adottato questo sistema nei Paesi arabi. Iniziamo il tragitto verso Natanz. Attraversiamo la periferia industriale di Teheran e prendiamo l’autostrada. Il percorso è tranquillo. i cartelli sono scritti sia in Farsi, sia in inglese. A un certo punto, la carreggiata cambia conformazione. L’autostrada è finita e prendiamo una via a tre corsie, piena di buche, sconnessa, in cui il traffico è indirizzato sulle due corsie esterne, negli opposti sensi di marcia. La parte centrale è destinata ai sorpassi, per chi procede in entrambe le direzioni. Il tassista procede a circa 100 chilometri all’ora. Ci sono molti camion, vecchi e sconquassati, oltre a macchine più lente, che ci costringono spesso a veloci sorpassi.

Arriviamo a Qom, un abitato abbastanza popolato. Fa caldo, ci sono circa 40 gradi, l’ambiente è arido, desertico e roccioso. Il clima afoso è opprimente. L’autista mi dice che vuole fermarsi presso il monastero. Raggiungiamo lo stabile e prendiamo una meritata pausa, passeggiando nelle stanze fresche. Un ruscello d’acqua costeggia i muri. Ne bevo un sorso. Il monastero di Qom, mi spiega il tassista, è islamico, ma è dedicato alla tolleranza tra le varie religioni. Apprezzo questo pensiero. Riprendiamo il nostro itinerario. Lasciamo la via principale e prendiamo la strada laterale che conduce a Natanz. Sono sicuro che è il tragitto giusto. Lo avevo studiato sulle mappe della regione e l’autista sta dirigendosi nella direzione giusta. Ci inoltriamo verso sud, in mezzo a rocce e cespugli. All’improvviso, in mezzo all’ambiente arido e inospitale, appare il sito atomico di Natanz.



I tetti bianchi dei caseggiati si distinguono in mezzo al deserto. Prendo la macchina fotografica e scatto subito le prime immagini. Ai margini esterni del sito, ci sono le torrette militari dell’esercito iraniano. Si intravedono gli immobili posti in mezzo al perimetro. Il cancello di ingresso è controllato. So che in Occidente vi è incertezza in merito all’effettiva attività che l’Iran sta intraprendendo nell’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz, in violazione dei principi di non proliferazione atomica. Io scopro invece un sito perfettamente funzionante, operativo a pieno regime, nell’ambito dello sviluppo del programma di ottenimento di uranio arricchito volto ad alimentare armamenti atomici, voluto da Khamenei e Ahmadinejad nel contesto dell’egemonia che l’Iran vuole consolidare nell’area e nell’ottica di poter rappresentare una minaccia concreta per Israele.



Passato l’impianto, percepisco sensazioni di acuto mal di testa, bruciore agli occhi e blocco alla gola, che potrebbero essere dovute a un campo di radiazioni elettromagnetiche, alle esalazioni di gas, alle radiazioni o ad altre attività nucleari. La centrifugazione dell’uranio esafluoride UF6 origina la divisione degli isotopi più leggeri di U235 da quelli più pesanti di U238 in un numero ripetuto di fasi e permette di ottenere uranio arricchito (ad alta concentrazione di U235). La parte rimanente è definita uranio impoverito, elemento con notevoli proprietà infiammabili ed esplosive, impiegato normalmente in ambito militare. Raggiungiamo l’abitato di Natanz e ci fermiamo. 



Faccio un paio di foto e fumo una sigaretta. Poi dico all’autista di tornare al sito. La vista da sud mi permette di fotografare le altre torrette del bordo di delimitazione e, soprattutto, una postazione contraerea per il lancio di missili terra-aria, posta a difesa della struttura, posizionata in cima ad un ammasso di argilla.





A breve distanza, noto la colonna di fumo tipica di un ordigno, che si erge nel panorama desertico. Potrebbe essere un missile, sparato nell’area. Riprendo la macchina fotografica e scatto a ripetizione. Vedo le strutture cilindriche tipiche di piccoli reattori tra i capannoni bianchi e beige, oltre ad una ciminiera. Le turbine per il procedimento di arricchimento sono nel sottosuolo. Sono sicuro che l’attività atomica è notevole. La probabilità di dispersioni nocive nell’ambiente è stata ovviamente ponderata da chi ha progettato l’impianto, che infatti è stato dislocato in una zona difficilmente raggiungibile, distante dai centri abitati. Riprendiamo la strada verso la capitale.

Perfetto, il blitz è riuscito. Ho usato uno schema militare per raggiungere Natanz, una firefox, una volpe di fuoco. Imprendibile. In hotel, estraggo la scheda dalla macchina fotografica e ne inserisco una vuota. Scendo nella hall. Devo saldare il taxi. Si presenta il manager dell’albergo, Sarkoz. Saliamo al primo piano. Non c’è nessuno. I corridoi e il grosso androne sono nella penombra. Sarkoz è vestito con giacca grigia e camicia. È magro, con il viso scuro. Gli passo i soldi concordati. Li conta velocemente e annuisce. Torniamo nella reception. Passo le ore seguenti passeggiando nelle vie buie del quartiere, oppure rilassandomi nella hall, guardando gli ospiti dell’hotel e soprattutto le donne. In Iran, non ci sono bar aperti al pubblico. Forse anche questa è una regola del regime. La gente, quindi, frequenta spesso gli alberghi. Vado a coricarmi.

Quando mi sveglio, prendo subito la mappa in cui ho evidenziato la posizione del Teheran Nuclear Research Centre. Non è molto distante. Fermo un taxi e indico all’autista l’area che devo raggiungere. Quando scendo, faccio pochi passi e trovo subito il centro di ricerca che fa parte del programma nucleare. Sento un rumore continuo, simile a quello di una turbina, che proviene da un fabbricato con la copertura rotonda. Scatto subito delle fotografie. Giro l’angolo e a fianco di un caseggiato appartenente al sito vedo un militare di guardia. È armato, porta un fucile mitragliatore di grosse dimensioni, più grande anche degli M16 occidentali. Ha il fisico molto muscoloso, frutto di molte ore di allenamento in palestra. Continuo a camminare tranquillamente. Immagino che si possa chiedere come mai ci sia un occidentale vestito con t-shirt e calzoni corti, con le scarpe da ginnastica, che passa davanti ad un sito nucleare strategico. Raggiungo la parte posteriore del centro. C’è un ampio prato, delimitato da recinzioni. Fotografo tutta la zona. Ne deduco alcune informazioni. Il TNRC continua ad avere una modesta attività, ma la parte più importante del programma atomico iraniano è sicuramente posta altrove. Sono convinto che già dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il regime di Teheran avesse ottenuto la fornitura di alcune testate atomiche.



Torno in albergo. Prendo anche la telecamera e mi dirigo verso la sede dell’università, situata a breve distanza. Negli scorsi mesi, questa facoltà è stata teatro di alcune proteste organizzate dagli studenti contro il regime. Accade spesso che le università siano il motore del dissidio nei confronti delle dittature, in quanto fonti di competenze e di pensiero libero, moderno e indipendente. Fotografo e riprendo i palazzi. Poi mi dirigo verso un incrocio, dove posso filmare molteplici angoli della città. Noto una moto con a bordo due uomini che si muove a pochi metri da me. Non mi faccio problemi. Ho posto la telecamera sul cavalletto e sto preparando delle immagini stabili. Mi ritengo abile, allenato e veloce. Ho la situazione sotto controllo. Quando finisco le riprese, ripongo la telecamera nello zaino e mi incammino sul marciapiede di Enghelab Avenue. A 20 metri di distanza dall’hotel, all’improvviso, in una frazione di secondo, sento la moto accelerare alla mie spalle. Il passeggero afferra il mio zaino e riesce a prenderlo, strappando la spallina che mi permetteva di portarlo. Il guidatore accelera.

La moto si allontana. Mi metto a correre per inseguirli. Immediatamente, una macchina bianca, con una fascia arancione, si ferma davanti a me. L’autista ha dei piccoli baffi, è alto e magro. Salgo a bordo rapidamente e gli dico di inseguire la motocicletta. La macchina parte, ma non capiamo dove possano essersi diretti i due ladri. Giriamo in una delle strade principali. Ad un distributore di carburante, c’è una moto ferma, ma i due motociclisti hanno le magliette invertite. Il guidatore ha quella bianca e il passeggero quella verde, esattamente all’opposto dei due scippatori. L’autista si fera. C’è una cabina del telefono. Avviso i miei familiari di essere stato derubato. Poi dico all’ometto di riportarmi in albergo. Lo zaino conteneva la telecamera e la macchina fotografica. Sono assicurato, ma devo fare denuncia.

Riposo un po’ e dopo mi dirigo alla stazione di polizia prospicente. Faccio fatica a farmi intendere, in inglese, ma riesco a spiegare la situazione. I poliziotti mi dicono di salire su una delle loro macchine. Iniziamo a perlustrare le vie di Teheran. Arriva la notte. A un certo punto, gli agenti si fermano in prossimità di alcuni loro colleghi. Passano alcuni minuti. Poi mi presentano un uomo, che hanno appena arrestato. Mi chiedono se è uno dei miei rapinatori. Rispondo di no, non lo riconosco. Torniamo alla caserma. C’è un po’ di confusione in Enghelab Avenue. Un individuo cerca di fuggire. Un poliziotto lo insegue con la moto e lo colpisce con la ruota. Mi dicono di entrare nella sede. Ci dirigiamo al piano inferiore, in una grande stanza con decine di sedie di plastica. Mi accomodo.

All’improvviso, un ricercato viene spinto nella sala. È stato ammanettato. Ha le mani dietro la schiena. Le manette sono strette. Un agente lo spinge verso il bancone posto in fondo, prendendolo a calci. I suoi colleghi lo accolgono. Trascorre ancora del tempo, circa mezz’ora. Poi un poliziotto mi consegna un plico con la mia denuncia. Dovrò farla tradurre per poterla consegnare all’assicurazione. Mi dicono di uscire. Vado in camera. Il giorno dopo, devo inviare un articolo ad un quotidiano. Trovo un internet point. Preparo il file in formato testo. La linea del modem è lenta. Noto che diversi siti sono bloccati. Il web è controllato e limitato dal regime. Per fare un esperimento, cerco delle immagini di Pamela Anderson. Riesco a visualizzarle. Ne scarico una. È abbastanza sexy. La invio alla mia posta. Finisco di scrivere e spedisco l’articolo alla redazione. Non so nemmeno se sarà pubblicato. Gli accordi erano questi, ma le scorrettezze dei redattori del quotidiano sono spesso incredibili. Il settore dei media, in Italia, purtroppo, è gravemente malato. All’oligopolio del comparto televisivo si somma un’informazione condizionata dalla politica oltre ogni ragionevole livello di tolleranza. È uno schifo. L’opulento mercato della pubblicità è appannaggio di pochi oligopolisti, che pongono barriere all’ingresso in ogni modo, lucrando miliardi di Euro, che poi, ovviamente, vengono infine pagati dai consumatori con i propri acquisti.

Passeggiando, vedo i giovani iraniani. Sono corpulenti, atletici, palestrati. Sembrano più forti di noi. L’Occidente però ha eserciti migliori. Questi ragazzi imparano a sparare con i kalashnikov a 15 anni. Passo i giorni seguenti cercando di centellinare i pochi soldi che mi sono rimasti. Non mangio mai a pranzo e a cena. Cammino molto. Scrivo. Giunge finalmente il giorno della partenza. Raggiungo in taxi l’aeroporto cittadino. Sono vestito con jeans e maglietta. Ho messo la scheda con le foto di Natanz nel taschino di destra dei pantaloni. È quanto mi è rimasto dopo il furto. Eseguo il check-in. Per passare il metal detector, i controlli sono accurati. Devo estrarre anche la scheda con le fotografie. Mi lasciano passare. Salgo a bordo del volo Alitalia che mi deve riportare a Milano. Prendo il mio posto vicino al finestrino. L’aereo inizia a muoversi lentamente. Passiamo a fianco dell’ala militare dello scalo. Vedo i jet dell’aviazione iraniana. Sono dei Sukhoi di produzione russa. Dopo il decollo, finalmente le hostess mi fanno avere un pasto caldo. Sono parecchi giorni che non mi alimento con qualcosa di decente.

Al mio rientro, riesco a trasferire le immagini sul pc con un adattatore. Adesso, ho le uniche, rarissime, fotografie dell’impianto di Natanz in attività. Preparo un rapporto dettagliato in inglese e invio tutto ai contatti che ho selezionato: Nato, eserciti occidentali, ex-Kgb e Global Security. La guerra scatenata da Israele contro il Libano è ancora in corso. Mi ricordo di aver conosciuto Simon Peres al Meeting Ambrosetti alcuni anni fa. Cerco il contatto della sua mail e invio anche a lui il rapporto. Ormai è chiaro che l’Iran sta ottenendo materiale atomico bombabile.


21.04.2025

Alessandro Ceresa

Frammenti di guerra: Osirak e Al-Tuwaitha

Dicembre 2008 - Lo spedizioniere mi consegna la busta con il passaporto, proveniente dall’Ambasciata dell’Iraq in Italia. Controllo il visto che hanno rilasciato. È perfetto: mi permetterà di entrare a Baghdad senza essere deportato. In pomeriggio, prenoto i voli aerei. Il primo tragitto è semplice: raggiungerò Beirut. Riesco a trovare anche la seconda tratta tramite una compagnia minore, ma dovrò ritirare il ticket cartaceo presso un’agenzia nella capitale libanese. Trascorro i giorni seguenti a preparare l’itinerario.

L’obiettivo della mia missione è il reattore atomico di Osirak, posto nel sito di Al-Tuwaitha, alla periferia di Baghdad. Voglio controllare direttamente la situazione e il centro voluto da Saddam Hussein per la proliferazione di armi di distruzione di massa, che in passato fu bombardato sia dall’Iran, che da Israele. Mi piace lo spionaggio, ma fare la spia anche durante una guerra è qualcosa di più, è grandioso. Gli obiettivi di high intelligence e i siti sospetti hanno costituito il motivo di interesse fondamentale della mia attività di free-lance negli ultimi anni.


L’aereo da Milano a Beirut atterra di notte. Esco dall’aeroporto e fumo qualche sigaretta nella fresca aria dell’oscurità, in compagnia di rari viaggiatori e di libanesi in qualche modo addetti allo scalo. Poi scelgo di salire su un taxi e mi faccio portare in città. Raggiungo l’hotel e aspetto nelle vicinanze che arrivi il momento di fare il check-in. Passeggio nelle strade, consumo qualcosa negli esercizi aperti a fianco del luna park. Quando posso salire in camera, mi metto subito a dormire. Esco solo per ritirare il biglietto per Baghdad all’agenzia. La sera, vado a mangiare qualcosa. Raggiungo un locale tipico libanese, che conosco già, in riva al mare. L’ambiente è elegante. I baristi sono gentili. Nella parte aperta del bistrot, sul molo, alcuni ragazzi giocano con delle tartarughe giganti che hanno raggiunto la riva. Alcune si sono capovolte. Le raddrizzano e permettono loro di riprendere a nuotare. Finisco la serata tranquillamente e vado a coricarmi.

Il jet che da Beirut mi porta a Baghdad è alimentato da due piccoli reattori, ma non è un boeing. Al contrario, sembra più un aereo privato. Il volo non dura molto. Quando atterriamo nella capitale irachena, sono facilitato nei movimenti dal bagaglio agile che porto, ricondotto solo a un grosso zaino da trekking. Come di norma, esco subito a fumare un paio di sigarette. Baghdad, eccomi. Il top della jihad è qui. La capitale irachena è l’epicentro maggiore della guerra in Iraq, che per intensità di fuoco rappresenta il conflitto più importante della Guerra al Terrorismo che impegna gli eserciti occidentali. Mi soffermo nella hall. Ci sono dei militari tedeschi che ritirano i loro bagagli. Raggiungo le macchine in sosta. Individuo un taxi. Contratto il prezzo e mi faccio portare all’Hotel Babylon, in città.


Le strade che collegano l’aeroporto al centro urbano sono malandate. I guardrail sono spesso divelti. L’asfalto è dissestato. Anche il parabrezza della macchina è scheggiato dai proiettili vaganti. Oltrepassiamo un paio di checkpoints. Gli iracheni controllano il mio passaporto e regolarmente mi fanno passare. Perfetto. Sono entrato. 



Per raggiungere l’hotel, il tassista percorre nell’ultimo tratto la strada che costeggia il fiume Tigri. Poco prima della struttura, un uomo in mezzo alla strada, vestito in tenuta da miliziano, punta verso di noi un fucile a pompa. L’autista prosegue tranquillo. Il paramilitare non spara. Lo oltrepassiamo e giriamo in una via laterale. Dopo pochi metri c’è l’ingresso dell’albergo. Entro e chiedo alla reception se hanno un posto per dormire. Prenoto un paio di notti e salgo in camera, al terzo piano. Metto in ordine i miei effetti personali e sento subito uno scroscio di spari provenienti dalla strada. Mi affaccio alla finestra e cerco di filmare lo scontro a fuoco, che continua per diversi minuti. Non vedo chi spara, ma registro tutto il combattimento.

Dal balcone, si vede il Tigri, con l’acqua azzurra e il fondale chiaro, che divide il resto della città dalla Green Zone, dove sono posti i palazzi del potere, il Governo e il Parlamento, strettamente situata sotto il controllo delle truppe statunitensi. Si tratta di una piccola “isola” all’interno di Baghdad, in cui dovrebbe essere garantita la sicurezza di chi vi opera. Per entrarvi, vi sono alcuni checkpoints e i controlli sono oppressivi. L’intera area è delimitata. Io sono all’esterno, nella Red Zone, la zona rossa, dove può accadere di tutto. Filmo un paio di elicotteri blackhawks americani che sorvolano la Green Zone. Baghdad. Il cielo è limpido, il clima tiepido, nonostante l’approssimarsi dell’inverno.

Esco dall’hotel e inizio a perlustrare a piedi il vicinato. Cerco di orientarmi nel quartiere. Non c’è molta attività commerciale. A un certo punto, si sente il fuoco di alcuni kalashnikov. È iniziato un altro scontro. I contrasti provocati dai miliziani sono frequenti. Si sentono i colpi dei proiettili. Alcuni iracheni camminano nei paraggi. Io sono senza giubbotto antiproiettile. Potrei mettermi al riparo di un albero, ma continuo a passeggiare. Se dovessi essere colpito, significherebbe che è giunta l’ora del mio destino, ma non conosco la probabilità che questo accada, che ritengo remota. I passanti si comportano allo stesso modo, quasi incuranti di cosa possa succedere. La scaramuccia armata finisce. Si sentono ancora alcuni colpi in allontanamento.

Ormai ho percorso diversi chilometri dall’albergo. Fermo una macchina. È un’antica e scassatissima auto rossa, simile ad una Zigulì. Il vecchio alla guida ha due baffi castani. Il parabrezza è infranto dai proiettili. Gli dico di portarmi al Babylon. Ci capiamo, un po’ in inglese e un po’ a gesti. Mi chiede 4 dollari. Salgo a bordo e iniziamo a percorrere alcune strade trafficate. Ogni tanto, il vecchietto si anima e urla qualcosa dal finestrino. Capisco che c’è una grande parte della popolazione che è schierata a fianco degli insurgents, gli insorti, i rivoltosi che si oppongono all’occupazione statunitense, che ottiene la collaborazione delle forze di sicurezza.

Torno in camera a riposare un po’. Poi raggiungo il secondo piano, in cui trovo una sala comune. Ci sono alcuni uomini impegnati a giocare a boccette ad un tavolo verde e alcune donne sdraiate su un divano logoro e sporco. Il loro aspetto lascivo mi fa persino sospettare che si tratti di donne di facili costumi. Una di loro mi lancia delle occhiate. Mi piacerebbe riuscire ad interagire. Provo a formulare un saluto in inglese, ma non ottengo risposta.

Il mattino seguente mangio qualcosa per colazione e inizio subito a studiare la mappa della città che mi sono stampato prima di partire. Sadr City, la fortezza delle milizie sciite della Mahdy Army, non dista molto. In attesa di raggiungere Osirak, entrare a Sadr City potrebbe essere un buon obiettivo. Così, come dimostrazione di abilità, tanto per iniziare a fare un allenamento. Nella hall, chiedo se c’è un tassista disponibile. Vengo messo in contatto con un uomo sui 55 anni, con i capelli e i baffi grigi. Gli spiego dove voglio andare. Usciamo e saliamo in macchina.



Il tragitto, attraverso le strade polverose di Baghdad, è agevole. Ci sono molte auto in giro. Guardo i fabbricati posti al riparo di muri di cemento, che li proteggono dai proiettili e dalle esplosioni. Vedo per le strade alcuni mezzi dell’esercito iracheno. Filmo tutto, seduto sul sedile del passeggero. A un tratto, l’autista svolta verso destra e prende una via a doppia corsia. <<Sadr City>>, mi dice, indicando un insieme di quartieri delimitato da una muraglia azzurra, oltre la quale si vedono numerosi caseggiati, attrezzati anche con antenne paraboliche. Aggiusto lo zoom della telecamera e continuo a riprendere. Una macchina si avvicina alla nostra sinistra e si affianca a noi.


Omissis…

Ci sono eventi troppo cruenti, che al momento non posso narrare, ma che saranno riportati nella versione integrale del libro…

Omissis…

La camionetta dell’esercito iracheno sfreccia per le vie di Baghdad, nell’oscurità. Sono seduto sul sedile posteriore. Davanti a me ci sono due militari. Anche loro hanno lo stemma con il teschio delle Special Forces. Guardo la città dal finestrino. Ok. Penso che sia il loro modo per farmi le palle, per costruire l’iron man, l’uomo di acciaio. Arriviamo davanti ad una palazzina elegante, che ospita il comando americano. Mi fanno scendere e mi portano al secondo piano. Seduti ad un’ampia scrivania, ci sono gli ufficiali statunitensi. Uno di loro è un generale.

Un soldato della Us Army rimane in piedi, a fianco della porta. È alto, biondo, bianco, con il fisico palestrato. Porta in mano, con semplicità, un MK48, probabilmente il miglior fucile mitragliatore che esista. Spara proiettili calibro 7,62, che hanno una capacità di perforazione superiore. Figo. Mi fido ciecamente della Us Army, come dell’esercito italiano, degli altri eserciti occidentali e dell’ex-Kgb. Sono sicuro che mi tireranno fuori da qualsiasi situazione incredibile in cui io possa essere in grado di cacciarmi. Mi dicono di raggiungere nei giorni seguenti il Media Centre statunitense posto nella Green Zone. Vengo riaccompagnato in hotel.

Mi sveglio con calma. Quando raggiungo la hall, un addetto mi spiega che il tassista è venuto a cercarmi. Incontro l’uomo, seduto ad un tavolino. Mi chiede giustamente il pagamento del tragitto. Ci accordiamo per 100 dollari, che gli saldo subito. Pretendo la ricevuta e mi rilascia un pezzo di carta leggera, intestato. Sapevo già per esperienza che in Iraq non avrei trovato nessun servizio bancario, oppure dei bancomat, o cose del genere. Non ho portato con me nemmeno la carta di credito, ma ho cambiato circa 2.000 dollari prima di partire e ho la riserva di contanti sempre con me. Anche gli alberghi sono costosi. Inizio a camminare nella via del Babylon. C’è un ponte pedonale che attraversa il Tigri e che conduce alla Green Zone. Salgo i gradini e vengo bloccato. Non posso passare, nonostante vi siano numerose persone che lo attraversano. Mi dicono che devo presentarmi al Checkpoint 3 per entrare.


Fermo una macchina. Dico all’autista dove deve portarmi. Riusciamo a capirci. Iniziamo il percorso, anche tortuoso, che deve innanzitutto attraversare il fiume e poi raggiungere l’estremità della zona internazionale, dove arriviamo abbastanza velocemente. Il tassista mi lascia a 100 metri dallo sbarramento che delimita l’area. Cammino verso l’ingresso. Noto subito che l’asfalto a tratti è bruciato, annerito, dalle autobombe. Ci sono alcuni negozietti ai margini della via. Il primo sbarramento è il più difficile da oltrepassare.

Devo spiegare ai militari iracheni preposti al controllo iniziale che sono un giornalista, che ho un visto regolare per stare in Iraq e che devo raggiungere il Media Centre americano. Mi lasciano accedere a tutto il percorso di controlli: occorre attraversare dei metal detector, far controllare gli effetti personali, farsi perquisire, lasciare gli oggetti di ferro. È tutto organizzato in una serie di barriere che interrompono un cunicolo tortuoso, protetto da muraglie e filo spinato, al termine del quale si riesce finalmente ad accedere al palazzo che, nel seminterrato, ospita sia il Media Centre, sia dei container in cui sono state poste le rappresentanze diplomatiche di alcune nazioni, verso le quali c’è un incessante movimento di persone, intenzionate a farsi rilasciare dei visti opportuni.

Il Media Centre è semplicemente ospitato in una grande stanza, all’interno della quale vi sono 3 postazioni di personal computer ed alcuni letti. La connessione internet è debole e instabile. Anche la rete telefonica, che in Iraq funziona solo qualche ora ogni giorno, è saltuaria. Lo noto precisamente, perché di norma tengo nota dei nomi dei provider telefonici negli Stati in guerra, siccome sono loro che forniscono il servizio di comunicazione. Ci sono alcuni militari statunitensi che controllano la zona.

Riesco a parlare con un sergente, che risulta essere incaricato della supervisione di tutta l’attività. Mi dice che se voglio, posso chiedere di essere aggregato (embedded) all’esercito americano in Iraq come giornalista e che devo fare opportuna domanda. Mi fornisce la modulistica, che compilo precisamente. Concordiamo l’argomento del mio lavoro: dovrò soprattutto eseguire dei rapporti in merito ai siti sospetti iracheni, che costituivano la struttura del sistema di preparazione di armi di distruzione di massa di Saddam Hussein (WMD: Weapons of Mass Destruction), che ha motivato l’invasione statunitense decisa da George W. Bush, così come le connessioni tra il regime di Saddam e Al-Qaida.

Apprendo da una notizia in internet che è appena scoppiata un’autobomba in un mercato. Esco dal Media Centre rifacendo al contrario il percorso di entrata e recuperando i miei effetti. All’esterno del Checkpoint 3, fermo una macchina e gli dico di portarmi sul luogo. Impieghiamo circa mezz’ora. Devo ripetere le coordinate di destinazione all’autista un paio di volte. Quando arriviamo, vedo un autobus e un’ambulanza, in mezzo alla polvere e al disordine, ma gli altri residui dell’attentato sono già stati rimossi e le persone sono state soccorse e portate in ospedale. Mi faccio ricondurre al Babylon.

Esco di nuovo al tramonto. Di fronte all’albergo, ci sono alcune baracchine che vendono generi alimentari. Prendo una bibita e mi siedo ad un tavolo di plastica. Fumo qualche sigaretta. Assaporo il momento, con il sole che lascia spazio al buio. Inizio a sentire un po’ di freddo. Sono abbigliato con una tuta e una semplice k-way. Arriva una macchina nera. Scendono due uomini vestiti di scuro. Aprono il bagagliaio. Si intravede una bombola di gas. Mi sembra di capire che sono esponenti di una fazione dei rivoltosi. Potrebbero essere parte della Mahdy Army. Si fermano nei paraggi a parlare con altri astanti. Le autobombe, a Baghdad, sono frequenti. Scoppiano quasi ogni giorno e causano decine di morti.


In passato, vi fu anche un noto attacco al Checkpoint 3. Una macchina carica di esplosivo si lanciò contro la postazione dell’esercito iracheno che costituisce il primo sbarramento di controllo per l’ingresso. Vi furono molte vittime. L’esplosione fu filmata anche dagli impianti di videosorveglianza.

I due uomini in nero ripartono. È chiaro che sono miliziani, impegnati a combattere l’occupazione occidentale. Come sempre, il colore bianco della mia pelle, i capelli chiari, e il look europeo attraggono molte attenzioni verso di me, in ogni Stato islamico che raggiungo. Ma sono anche italiano: di conseguenza riesco sempre ad attraversare ogni difficoltà, sono tagliente come un coltello e non sono visto così male come gli statunitensi. Torno in camera. Mi corico tranquillo.

La mattina dopo, devo cambiare hotel. Il Babylon non ha più posti. Inizio però la giornata recandomi al Media Centre. La procedura è sempre la stessa: taxi fino al Checkpoint 3, percorso con i controlli di sicurezza ed ingresso nella stanza del seminterrato. Sento il rumore di un jet americano, che sta percorrendo i cieli dell'Iraq. Potrebbe essere un F16. La giornata è uggiosa. Un po' di pioggia fa bene alla polvere e all'aridità irachene. Lo stesso jet potrebbe bombardare le postazioni degli insorti, oppure disperdere qualche sostanza chimica per far piovere. Colgo l’occasione per iniziare a trascrivere degli articoli, che archivio su una chiavetta Usb. Normalmente, prendo appunti e scrivo i testi su fogli di carta quando riesco a trovare un po’ di tempo. 

I computer del Media Centre sono veramente scarsi. Anche la linea internet non è veloce, ma riesco comunque a individuare una sistemazione sostitutiva per la notte. L’Hotel Sheraton dovrebbe andare bene. Finisco di sottoscrivere la modulistica per l’embedding con l’esercito statunitense. Mi occorreranno poi alcuni documenti da presentare, tra cui la lettera di incarico della testata giornalistica. Decido di chiederla a Franco Londei, direttore di Secondo Protocollo, un sito web che ha già ospitato dei miei articoli e con cui vado d’accordo. Poi decido di uscire. È già tardi. Il sole sta per tramontare.

All’esterno della Green Zone, è in corso una battaglia. I rivoltosi stanno attaccando. C’è un humvee dell’esercito iracheno piazzato in mezzo alla strada. Il soldato sulla torretta manovra un mitragliatore, decisamente più grosso e più potente anche degli M16 in dotazione agli americani e all’esercito italiano, che mi ricordo bene dallo scorso anno, quando ero stato aggregato ai nostri militari di stanza a Kabul, in Afghanistan. Gli altri soldati iracheni hanno improvvisato una barriera e hanno bloccato la via. Hanno i fucili spianati.

Si sente un colpo di cannone provenire dalla parte opposta della strada. Si vede del fumo. Proseguo a camminare sul marciapiede. Dal primo piano di una delle abitazioni sopra le botteghe, esce un uomo e spara un colpo di revolver. Vedo bene il braccio teso e l’arma. In fondo alla strada, si nota una certa confusione e si sentono ancora altre esplosioni di proiettili. Poi la situazione cambia. Gli insorti si ritirano. Continuo a camminare in quella direzione, ma l’attacco è finito. Oltrepasso la zona degli scontri. Le auto riprendono a circolare. Inizia a diventare buio.

Fermo una macchina. Chiedo all’autista di portarmi allo Sheraton. Quando arrivo, la hall dell’albergo è quasi deserta. Contratto il prezzo di una camera per due notti. Ho a disposizione degli euro e devo contrattare anche il cambio con gli addetti alla reception. Si dimostrano abbastanza onesti e non esagerano con la conversione della valuta in dollari. Porto lo zaino in camera. Dalle finestre, si vede ancora il Tigri.

Scendo al piano del bar. Ordino qualcosa da bere e mi siedo ad un tavolo. Ci sono altri avventori. Sento parlare una famiglia. Questi sono i signori arabi. Si comportano come la buona società italiana, o il club degli europei. Parlano inframezzando qualche parola in italiano e in inglese nei loro discorsi, rivolgendosi a me indirettamente. Hanno la stessa clean mind, la stessa mente pulita che mi ricordo di aver notato in Afghanistan. Finisco così la serata.

Quando mi risveglio, faccio una piccola colazione. Poi chiedo se l’albergo ha un pc a disposizione, ma l’inserviente mi suggerisce di provare a domandare all’hotel di fronte. Entrambe le strutture ricettive sarebbero state in seguito oggetto di un attentato in grado di causare numerosi morti. Attraverso il cortile ed entro nell’altro hotel. Effettivamente, hanno la possibilità di farmi lavorare un po’ al computer, collegato ad internet. Colgo l’opportunità di trascrivere un articolo e di mettere in linea alcuni testi. A volte, occorre saper sfruttare bene l’arte di arrangiarsi.

Lascio qualche dollaro al portiere, cerco un passaggio in auto e torno al Checkpoint 3, al Media Centre. Devo superare l’identificazione per essere aggregato alla Us Army, quando riceverò l’accettazione. Raggiungo una saletta posta nei cunicoli del seminterrato, a fianco dei container delle ambasciate e vengo sottoposto ad una serie di procedure: fotografie, di fronte e di lato, firma, e rilevazione delle impronte digitali di pollice e indice, con la scansione ad infrarossi. Guardo i soldati della Us Army impegnati a sollevare pesi e bilancieri nella zona in cui vi sono alcune attrezzature da palestra. Hanno le braccia coperte da tatuaggi.


Decido di fare ancora un giro per Baghdad. Mi faccio portare da un’auto nei pressi di Sadr City. A un certo punto, dico all’autista di fermarsi e rimango a piedi. C’è un cimitero. Anche questo sarà stato riempito dalla guerra. È sempre così. Vedo un campo da calcio. Ci sono dei ragazzini che giocano. Il fondo è sterrato, delimitato da reti arrugginite. Le porte non hanno le reti. Continuo la mia camminata, ma ad un certo punto vedo sul mio marciapiede degli oggetti strani di metallo. Potrebbero essere mine antiuomo, disperse. Nelle zone di guerra, è molto comune utilizzare le mine antiuomo, però poi i feriti non si contano… (mi ricordo di averle trovate in Cambogia, Bosnia, Libano, Afghanistan, n.d.r.).

Sta scendendo l’oscurità. Riprendo un altro passaggio. Chiedo di essere portato allo Sheraton. L’autista mi fa scendere poco distante. Devo attraversare una strada a doppia corsia e là in fondo dovrebbe esserci l’hotel. Indosso solo un maglione di cotone, jeans e maglietta. I due sensi di marcia sono divisi da blocchi di cemento e filo spinato, oltrepassando il quale riesco a far impigliare il maglione nelle spine di ferro, rovinandolo, ovviamente. Tutte queste misure di sicurezza, dai checkpoints, ai muri di cemento, al filo spinato, sono la norma nelle strade di Baghdad. La gente ormai ci ha fatto l’abitudine. Raggiungo la mia camera. Inizio a dormire. Secondo i miei programmi, domani dovrei raggiungere Osirak e poi riprendere l’aereo per Beirut. Preparo la mia attrezzatura. Collego le batterie alla corrente e cerco di dormire un po’.


Mi alzo verso le 4 del mattino. Mi è stato detto di non andare a Osirak, ma mi ritengo troppo abile per sottomettermi ai diktat. Fumo qualche sigaretta guardando le luci della città. Nel buio, si eleva il canto del muezzin per la prima preghiera, che loda Allah. Adoro i canti dei muezzin: mi hanno fatto sempre compagnia, durante le avventure negli Stati islamici. Decido di andare a Osirak nonostante ogni difficoltà. Aspetto il momento opportuno, verso le 8, per prendere un taxi. L’autista capisce subito la destinazione. Iniziamo ad attraversare il traffico di Baghdad. Superiamo senza problemi un paio di checkpoints, raggiungendo la periferia, dove le strade sono ancora più sconnesse.

A un certo punto, vedo una base militare statunitense. Leggo la scritta sull’entrata: Camp Marlboro. Siamo vicinissimi al centro atomico di Al-Tuwaitha. Penso che i soldati americani di stanza nella base non siano stati molto fortunati: la zona è probabilmente soggetta alla dispersione di molteplici radiazioni nucleari. Il terrapieno che delimita il sito al centro di cui ci sono i resti del reattore di Osirak appare all’improvviso a lato della via. Dall’altra parte della carreggiata, ci sono dei siti secondari, comunque destinati allo sviluppo di armi atomiche. Il programma di Saddam prevedeva che il centro di Al-Tuwaitha e le immediate vicinanze fossero rivolte a ricerca atomica, separazione del plutonio, trattamento degli scarti radioattivi, metallurgia dell’uranio, preparazione delle testate, sviluppo degli inneschi di neutroni, arricchimento dell’uranio.

Lascio che l’autista prosegui e raggiungiamo poco dopo un punto di notevole interesse: a fianco della strada, ci sono dei grossi coperchi rotondi, di acciaio, che chiudono ermeticamente dei cilindri scavati nel suolo. Potrebbe essere un sito di stoccaggio di scorie radioattive, o di isotopi dell’uranio (probabilmente U3O8), posto subito dopo il reattore. Percorriamo ancora una breve distanza, poi dico al tassista di tornare al sito. Quando arriviamo di nuovo ad Al-Tuwaitha, prendo il telefono, accendo la videocamera ed inizio a filmare, appoggiando il cellulare al bordo del finestrino per avere la massima stabilità. Registro le immagini del terrapieno e del cancello di entrata. L’intera area non ha particolari controlli di sorveglianza e non si denotano attività rilevanti, nonostante il consueto caos che contraddistingue ogni parte della capitale irachena. 


Il rientro verso l’hotel è altrettanto agevole: raggiungo la struttura superando anche alcuni checkpoints delle forze di sicurezza irachene. Eseguo il check-out alla reception. Esco. Chiedo a un tassista quanto vuole per portarmi all’aeroporto. Pretende 100 dollari. Sono troppi, riducono le mie capacità finanziarie notevolmente. Devo ancora alloggiare a Beirut in attesa del volo di ritorno verso l’Italia. Non c’è nulla da fare. L’autista è inflessibile. Devo accettare le condizioni. Carico il bagaglio e mi siedo sul sedile posteriore. La giornata è nuvolosa, uggiosa. Iniziamo il lento tragitto verso lo scalo, che dista qualche chilometro dal centro. C’è più confusione del solito. A breve distanza dalla nostra destinazione, un checkpoint ferma tutte le vetture. Non si può proseguire. Il tassista mi fa scendere. Lo pago e ritiro il mio zaino. Ci sono solo alcune macchine che possono passare. Riesco a parlare con uno dei guidatori. Accetta di darmi un passaggio fino alle partenze.

Quando arrivo, la zona è immersa in una coltre mista di fuliggine e umidità. Cerco sul tabellone il gate dell’aereo per Beirut. Il volo è stato cancellato. Chiedo al banco delle informazioni una spiegazione. Tutti gli aerei in partenza da Baghdad oggi sono stati sospesi a causa della nebbia. Potrebbero partire nei prossimi giorni. Ok. Adesso devo ballare. Ho pochi soldi in tasca, circa 200 dollari e sono senza un posto per dormire. Devo rientrare in città. Riesco a trovare un passaggio grazie alla disponibilità di un iracheno. Gli chiedo di portarmi al Checkpoint 3 della Green Zone. Raggiungo di nuovo il Media Centre. Il sergente americano è disponibile ad ospitarmi lì per la notte.

Il problema, adesso, è raggiungere l’aeroporto l’indomani. Cerco il numero di telefono di riferimento dell’Ambasciata d’Italia in Iraq. Riesco a parlare con un responsabile. Fisicamente, loro sono stati trasferiti in Kuwait, non possono erogarmi un prestito diplomatico di denaro, ma potrebbero inviare una macchina per portarmi al servizio di collegamento tra Baghdad e l’aeroporto. Insisto per ottenere questa cortesia. È meglio che non spenda altri soldi. Il responsabile dell’ambasciata si dimostra oltremodo gentile e mi accorda il favore. Devo però procurarmi un giubbotto antiproiettile e un elmetto, siccome il trasferimento avviene tramite le linee militari della Us Army e il protocollo di comportamento è rigido. Chiedo al mio collegamento diplomatico che possano essermi forniti da loro. Rimandiamo ad una telefonata seguente l’approvazione della domanda.



Decido di uscire ancora dalla Green Zone. Lascio i bagagli nel Media Centre. Vago per i negozietti della strada prospicente. Raggiungo in fondo alla via un esercizio di ristorazione. Predo qualcosa al bar. Memore dell’esperienza di Teheran, devo però cercare di confermare il volo e capire quando potrà essere di nuovo operativo. Mi faccio portare da un taxi all’agenzia della compagnia, posta a poca distanza. Un’addetta della biglietteria mi dice che l’aereo potrebbe partire due giorni dopo, se le condizioni meteorologiche lo permetteranno. Blocco il mio posto. Ripendo a camminare per le strade. Ormai si è fatto scuro e non so bene dove mi trovo, ho perso più o meno l’orientamento. Fermo ancora una macchina. L’autista e il suo compagno sembrano più disgraziati del solito, ma non mi faccio problemi. È buio. Baghdad offre il solito scenario. C’è la guerra. È uno spettacolo.

Quando rientro nel Media Centre, riesco a ricontattare il responsabile dell’ambasciata. È tutto a posto. Mi forniranno giubbotto ed elmetto. L’indomani, una macchina verrà a prelevarmi. Il sergente mi conferma che la mia pratica di embedding potrà essere sottoposta ad approvazione. Arriva anche la cena, fornita tramite vassoi di polistirolo, all’interno dei quali ci sono le vivande. Sono alcuni giorni che non mangio altro se non una fugace colazione e qualche pacchetto di patatine. Apprezzo la cucina degli americani. È abbondante e il cibo è buono. Lavoro un po’ in internet e poi mi sdraio sulla branda che mi hanno assegnato. Prendo subito sonno.

La mattina dopo, una giovane e attraente soldatessa statunitense si presenta con la colazione: caffè e muffin. Non poteva andarmi meglio. Preparo tutto per il trasferimento. Attendo gli operatori italiani. Quando arrivano, noto subito che si tratta di due Carabinieri in servizio a Baghdad. Raggiungiamo la macchina. È una Land Rover. Mi accomodo a fianco dei due mitragliatori M16 che hanno in dotazione. Partiamo. Non scambiamo molte parole. Mi conducono alla base di partenza del Rhino che mi porterà all’aeroporto.

Il Rhino è un veicolo volto a trasportare persone. Attendo alla stazione un po’ di tempo. Oltre a me, ci sono circa 20 uomini che devono raggiungere lo scalo. Si tratta perlopiù di agenti, spie o militari alleati. Ho in tasca il foglio di imbarco con i miei dati. Saliamo a bordo e inizia il trasferimento. Attraversiamo quartieri di Baghdad che ho già intravisto. Il mezzo è lento e rumoroso. Arriviamo nella zona dell’aeroporto. Mi dicono di scendere davanti ad un capannone che ospita una base di appoggio.

Entro e mi posiziono comodamente su una delle poltrone. Guardo il bancone degli alimenti. Ci sono delle grosse buste. Ne apro una. È curiosa. Contiene dei fiammiferi, dei sacchi di plastica, altra oggettistica minore per la sopravvivenza e un po’ di cibo, tra cui dei noodles e una tavoletta di cioccolato. Cerco qualcosa da bere. Recupero anche una tazza di caffè. Trascorro la notte cercando di dormire un po’, coricato scomodamente e alzandomi sovente per fumare delle sigarette fuori dal fabbricato. Talvolta, arrivano dei militari statunitensi, destinati a raggiungere altre basi.

Con le prime luci della mattina, l’attività riprende ad un ritmo più elevato. Chiedo ad un addetto come posso fare per arrivare allo scalo. Mi indica la fermata di un autobus. Attendo mezz’ora e il mezzo, color bianco, antiquato, sopraggiunge. La giornata è tersa, si vede il cielo limpido, l’aria è frizzante. Il volo è confermato. Mi reco al primo piano, dopo le ordinarie procedure di check-in per l’imbarco. Guardo dalla finestra il panorama che si staglia oltre gli allestimenti aeroportuali. Improvvisamente, giungono i rumori di alcune esplosioni. Un altro attacco. Gli ordigni scoppiano a breve distanza. Baghdad, ci rivediamo presto.

Attendo un paio d’ore prima di poter partire con il solito jet. Filmo dal finestrino le regioni irachene sottostanti. Riesco a individuare Falluja, alcuni siti sospetti e Haditha. Poi il velivolo entra in Siria. Guardo il deserto, rosso e inospitale, che d’estate può diventare invivibile, con temperature superiori a 40 gradi. Fotografo un sito di interesse, a Palmyra, nei pressi di cui esiste un’importante miniera di fosfato, le cui rocce contengono delle parti di uranio, per cui l’impianto è volto ad estrarre fosfato di uranio, a sua volta raffinabile per ottenere degli isotopi radioattivi idonei alla fissione.



25.02.2025

Alessandro Ceresa

Frammenti di guerra: il sito di Der Al-Hadjar a Damasco

Baghdad, gennaio 2009. Riuniti nel centro messo a disposizione della stampa dall’esercito americano, ci interroghiamo in merito alle coordinate geografiche del sito atomico di Der Al-Hadjar, in Siria. I giornalisti statunitensi e i soldati della Us Army si dimostrano interessati alla posizione esatta della struttura, che risulta essere posta vicino a Damasco, ma non riescono a trovare esattamente latitudine e longitudine. Spiego al tenente responsabile del centro che mi sarei occupato io della sua individuazione, quando, al termine dell’embedding, il mio programma avrebbe comportato un break a Beirut, scalo da me prediletto per i voli tra Europa e Medio Oriente.

Finito il periodo di affiancamento all’esercito americano in Iraq, raggiungo la capitale libanese. Il volo per Roma sarebbe partito solamente il giorno dopo, alle 22. Trascorro il pomeriggio e la sera camminando nelle vie di Beirut. Quando viene buio, salgo verso il promontorio della Rouche, tristemente noto per le esecuzioni, e nel bar posto in cima alla scogliera gusto il tiepido clima della notte. Il giorno dopo, eseguo il check-out e chiedo di farmi venire a prendere da un taxi. Dico all’autista di portarmi a Damasco. Concordo il prezzo per andata e ritorno: 100 dollari. La macchina inizia il tragitto verso est, in direzione del confine siriano.

Scendendo verso la Valle di Beqa, noto che Israele sta conducendo dei bombardamenti nella zona. Si vedono le colonne di fumo degli ordigni. Passiamo a fianco di una garitta di un soldato libanese, che osserva dalla sua postazione le esplosioni nella vallata. L’aviazione di Tel Aviv ha mandato i propri jet nell’area di confine tra Libano e Siria. Proseguiamo il nostro itinerario. La strada attraversa le coltivazioni dell’altopiano di Beqa. A un certo punto, a una decina di metri dalla macchina, vedo una fiammata che incendia un albero: una bomba lo ha centrato. Quando il percorso asfaltato inizia a salire leggermente verso la frontiera, noto altre colonne di fumo che si ergono a margine della via. L’ingresso in Siria è agevole. Le autorità di confine appongono solo il timbro del visto sul passaporto.

In poco tempo, arriviamo a Damasco. Spiego all’autista che deve raggiungere Der Al-Hadjar. Lui chiede informazioni e si dirige verso l’aeroporto. Perlustriamo le vie adiacenti lo scalo. Inizio a filmare. Individuo il sito di smaltimento dei rifiuti radioattivi. 

Riprendo altri siti sospetti. Poi, finalmente, giungiamo al nostro obiettivo. Filmo tutto. Ci sono diversi fabbricati all’interno dell’area. I bombardamenti degli aerei israeliani continuano fino a qui. Vedo altre colonne di fumo. Cerco di orientarmi e di distinguere gli immobili più interessanti del sito atomico. 
Poco dopo, l’autista si ferma in una via della periferia di Damasco. Mi dice di aspettare. Scende e raggiunge un panificio. Accendo una sigaretta. Quando torna, mi offre un pezzo di pane, ma declino la proposta. Riprendiamo il tragitto. Attraversando le strade della città, vedo in cima ad un promontorio l’imponente costruzione di un palazzo esteso. Riprendo anche questo sito: si tratta di una struttura di sperimentazione atomica. 

I centri nucleari in Siria sono d'altronde molteplici. Nel mese di dicembre 2008, volando da Baghdad a Beirut, avevo individuato il sito di Palmyra, in mezzo al deserto rossastro, arido e invivibile. 

Torniamo in Libano. Mi faccio depositare dal taxi in aeroporto. Adoro volare di notte in zone di guerra. Eseguo il check-in e mi imbarco sul volo dell’Alitalia diretto a Roma. L’aereo riparte nonostante le tensioni che si percepivano durante la giornata. Oltre alle esplosioni che hanno colpito anche la città, gli addetti dell’aeroporto confermano che Israele ha rivolto un missile verso lo scalo. Si sente dire che i radar hanno rilevato altri jet di Tel Aviv. La potenza aerospaziale di Israele è indiscutibile e sovrasta le capacità offensive di Hezbollah, di Hamas, dell’esercito libanese e dell’Unifil.

Il mio aereo compie le dovute manovre per posizionarsi sulla linea di crociera. Tra le coste libanesi e Cipro inizia a scatenarsi una battaglia. Si sentono le prime esplosioni contro la carlinga. Sono proiettili di scarso potenziale, che non dovrebbero scalfire l’aereo, grazie alla calotta di protezione formata dall’aria compressa prodotta dal movimento e dalla velocità. Guardo il panorama dall’oblò. Vedo chiaramente le luci di un jet militare, che inquadra il boeing con l’obiettivo di un proprio missile. È un black angel di produzione sovietica. Si vedono le ali luminescenti e il viso del disegno che contraddistingue i mirini dei missili. Passa un secondo. Il pilota spara. Il volto dell’immagine si gira. Passa un altro secondo. Vedo arrivare un missile argentato, cilindrico, quasi irreale, indirizzato all’ala destra del velivolo. L’aria compressa del boeing lo respinge verso il basso. L’aereo si sposta  leggermente, per colpa dell’onda d’urto del missile.

Questo fatto conferma la realtà dell’attacco. Forse l’ordigno non era innescato e non è esploso. Oppure, la calotta di protezione è riuscita a respingerlo. Oppure, era solo dimostrativo, non detonante. Gli arabi a bordo fanno dei commenti. Vedo il jet che ci ha sparato. Le luci di posizione lampeggiano nel buio della notte, in mezzo al firmamento. Il pilota lancia un segnale con il laser, tratteggiando la scritta Mig, in rosso, sul lato dell’aereo. Mi chiedo se si tratta davvero di un aereo di produzione russa e a quale esercito appartiene. Vedo il jet allontanarsi nello spazio. Il comandante del boeing ha una visuale migliore della battaglia che si è scatenata nei cieli a ovest del Libano e decide di aprirsi la strada sparando, siccome l’Alitalia dispone anche di aerei armati. Lancia un missile. L’ordigno è racchiuso in una delle scatole grigie trapezoidali poste sotto le ali, di cui si apre il coperchio posteriore. Il missile cilindrico esce dal proprio involucro, arretra e si abbassa per effetto della velocità, lanciandosi nell’atmosfera con una fiammata. Raggiungerà qualche zona indistinta del Mediterraneo centrale. Ho l’impressione di vivere in un film. Decido di dormire, comodamente disteso sul sedile. La battaglia dovrebbe essere finita.



29.12.2024

Alessandro Ceresa