Storie di mafia: Ibiza, Farc colombiane

Ibiza è una mia base: ho perso il conto di tutte le volte in cui ho visitato l’isola. Concerti, discoteche, mare, ristoranti: ogni volta, Ibiza è un piacere…e ho trovato conferma di quanto sentivo indicare, in merito alla presenza delle Farc colombiane. Adesso, mi è chiaro come le gang latino-americane operino in loco. Era previsto che il traffico di cocaina fosse nelle loro mani. Le Farc costituiscono il primo anello della catena di produzione e distribuzione della coca e sono persino antecedenti alla ‘Ndrangheta.



I narcos hanno scelto Ibiza come uno dei luoghi in cui insediarsi. Mi è finalmente chiaro, dall’esperienza di varie visite, che mi hanno permesso in particolar modo di entrare in contatto con il racket della prostituzione, che funziona più o meno come in alcune zone d’Italia. Cercando in internet i siti di escort di Ibiza, il 90% delle ragazze sono adesso colombiane. Si capisce così tutto il giro di affari instaurato nell’isola dalle Fac colombiane. La prostituzione a Ibiza à cambiata, negli ultimi anni. Non ci sono più locali dedicati, salvo un paio di eccezioni. Le ragazze offrono i propri servizi ricevendo i clienti negli appartamenti.

Il racket è chiaro. Le Farc acquistano a Ibiza immobili residenziali e attività produttive, riciclando i loro proventi dal traffico di cocaina. Le giovani pagano gli affitti e alimentano il business. La vendita di coca proveniente dal Sudamerica, classicamente, è demandata agli altri sodalizi presenti: italiani, magrebini e, per la bassa manodopera, neri, che aspettano ai margini delle strade e offrono la droga ai passanti con il solito termine in gergo: <<Charlie>>. Il tutto nell’ambito di un tessuto produttivo ai cui vertici ci sono gli spagnoli, che controllano i propri patrimoni e che offrono investimenti immobiliari a prezzi da capogiro. Negli anni, ho avuto modo anch’io di frequentare un paio di colombiane.

La prima, in una splendida villa con piscina, posta a poca distanza da Playa d’en Bossa. Il cancello chiuso, gli uomini con le radioline, le ragazze che is presentano una dopo l’altra, le camere lussuose, l’uscita controllata: tutto questo mi ha fatto pensare veramente ad uno scenario sudamericano. La ragazza, di Bogotà, si è rivelata una gran scopata. Ne ho conosciuta anche un’altra. Comprando i biglietti per un concerto da un bagarino di Napoli, gli ho chiesto se non avesse qualche escort. Mi ha indirizzato ad una giovane che metteva anche gli annunci sui siti specializzati. Ho raggiunto l’appartamento, posto vicino all’hotel, e ho passato una bella ora di sesso con la ragazza.

Il resto del mercato della droga di Ibiza presenta pasticche provenienti dall’Olanda e dalla Svizzera e droghe leggere. Camminando sulla via parallela al litorale, mi lascio incantare da una bellissima ragazza che fa la Pr per un bar gestito da italiani. È colombiana anche lei. Che stile, che tacchi. Mi dice di venire da Milano. Bevo qualcosa nel bar, in compagnia dei giovani. Adesso, rientrato a Pavia, guardo i siti delle escort presenti in città. Ecco un’altra colombiana…

27.09.2025

Alessandro Ceresa

Economia: lo sviluppo del sistema calabrese

 


Quali sono le prospettive di sviluppo per la Calabria? Di fronte a buone possibilità, il tessuto economico fatica tuttora, rispetto alle altre regioni d’Italia. Come nel resto del Sud, le competenze e le professionalità, così come la preparazione delle risorse umane, non mancano e questo può essere un ottimo indirizzo per i giovani. Occorre pensare a un “sistema” per la Calabria, che possa partire dalle opportunità di sviluppo. Vi sono alcuni elementi che quindi si possono sottolineare.

-            investimenti nella regione

-            un modello di sviluppo sostenibile, che decida l’equilibrio giusto delle politiche di industrializzazione

-            promozione del turismo

-            attenzione alla sanità

-            propensione alla formazione

-            tutela e sviluppo dell’agricoltura

-            evoluzione del settore immobiliare

-            progresso dei servizi, del commercio, delle attività di somministrazione

-            impiego dei contributi e dei trasferimenti derivanti dallo Stato e dai fondi europei

-            gestione degli appalti

-            promozione dell’imprenditorialità

Una sintesi macroeconomica potrebbe ricondurre il modello e le sue espansioni alla semplice equazione Y = C + I + G +- NX, dove Y è il prodotto interno lordo (della regione), C sono i consumi, I sono gli investimenti, G è la spesa pubblica e NX sono le esportazioni nette, ovvero la differenza tra esportazioni e importazioni, che può avere segno positivo, oppure negativo. Il sentiero è questo.


02.09.2025

Alessandro Ceresa

Storie di mafia: San Luca, il Crimine

Quando arrivo a Rosarno, mi fermo ad un autogrill. Ci sono un po’ di uomini seduti davanti al bar. Altri sono fermi nei pressi di un furgone. Bevo un caffè, compro un pacchetto di sigarette e ne fumo una in compagnia degli astanti. Faccio loro vedere che sto bene. L’anno scorso, non riuscivo quasi a muovermi per colpa del mal di schiena, dopo le dimissioni dalla società per cui lavoravo. Riprendo l’auto che ho noleggiato e riparto. È diventato buio. La strada che attraversa l’estremità dell’Aspromonte è agevole. Una lunga galleria permette di superare il promontorio che delimita lo spartiacque tra i due mari. Mi piace l’Aspromonte.


Le parti più vicine alla costa presentano dei borghi antichi, gradevoli, con alcuni immobili storici di pregevole aspetto. Il resto del Parco offre la vista di una natura incontaminata, con boschi verdi e pendii scoscesi. Quando si giunge al mare, si nota il consueto paesaggio dei borghi calabri. A tratti, l’urbanizzazione è finita, moderna, a tratti vi sono centri costellati di immobili che rimangono tuttora da costruire. C’è tanto da fare, da realizzare, per le nuove generazioni. Il mare è azzurro, splendido. Apprezzo le coltivazioni di ulivi e fichi. Ho prenotato un hotel a Siderno, nella Locride. Scambio qualche parola con il responsabile della struttura. Faccio il check-in, vado a mangiare e finisco la serata guardando un gruppo di turisti che balla il tango argentino.

La mattina seguente raggiungo San Luca. La strada è agevole, anche se l’asfalto è spesso sconnesso. Guardo l’architettura delle case di Locri. Poi mi dirigo verso le alture della campagna. Il paesaggio è brullo, la vegetazione rada: si ha ancora l’impressione che le possibilità di sviluppo siano notevoli. Oggi è il 2 settembre, Festa della Madonna della Montagna, cara a tutta la popolazione e venerata dai vertici della ‘Ndrangheta. San Luca è un comune esteso, in termini di superficie complessiva. Raggiungo il centro. In virtù dei lavori in corso sulla strada che conduce al Santuario di Polsi, quest’anno la celebrazione si svolge presso la chiesa della parrocchia di Santa Maria della Pietà. La statua della Madonna è stata condotta da Polsi a San Luca.



Parcheggio come posso, nel caos che si è creato di persone e di macchine. Quando arrivo alla chiesa, inizio ad essere avvolto dai festeggiamenti. Ragazze e ragazzi danzano, suonando dei tamburelli, accerchiati dalla folla. In poco tempo, il santuario si riempie. E’ attesa anche l’omelia del vescovo. Arrivano le autorità locali. Inizio a bere un caffè in un bar. Poi mi lascio trascinare dal ritmo festoso dei balli e dei tamburelli dei giovani. Lo spettacolo è straordinario. Rimango tra di loro per un po’ di tempo, fino al momento in cui decido di assistere alla messa, relegato sulle scale del portone principale. La temperatura fresca della chiesa fornisce un po’ di sollievo. Intravedo un altro bar. Prendo un caffè e una birra. Il barista mi chiede se apprezzo l’ospitalità del Sud. Gli rispondo di sì, perché al Nord sono in faida. Finisco la consumazione e rimango seduto sulle panchine a fianco della porta, tra la gente.



Ogni tanto, vedo degli uomini vestiti in modo elegante. Capisco che sono i boss. Il Crimine ha in San Luca un luogo di riferimento. I ragazzi sono il sotto-Crimine. Si presentano così. Racconto al telefono i dettagli riguardanti l’esperienza di Osirak, in Iraq. Gli astanti mi confermano l’informazione che avevo già percepito il giorno precedente: come Capo-Crimine è stato nominato il rappresentante del mandamento della Montagna, con la maggioranza dei voti, preferito al mandamento della Piana (che comprende Rosarno e Gioia Tauro), connesso al clan Pesce. La Montagna, cioè il mandamento che ha in San Luca il proprio epicentro, è quindi ancora una volta al vertice del Crimine, ovvero della struttura apicale della ‘Ndrangheta.



Vengo raggiunto da un gruppo di uomini, che si siedono nello spazio con le panchine. Sono di Gioia Tauro. Uno di loro mi riconosce. È il titolare del bed & breakfast dove avevo soggiornato lo scorso anno. Scambiamo qualche parola. La funzione è finita. I partecipanti affluiscono nelle strade. Alcuni di loro entrano nel bar. Bevo ancora un caffè, accompagnato da un bicchiere d’acqua. Finisco di fumare qualche sigaretta. Mi dicono che io devo pensare alla gente, alla popolazione. Ascolto i giovani. Mi confermano che occorre ripensare agli investimenti al Nord, che occorre riportare i capitali in Calabria e che spesso gli investimenti stessi si sono rivelati improduttivi, anche se hanno permesso il riciclaggio dei soldi provenienti dalle attività illegali. Si sente dire che i ragazzi devono mantenersi puliti, senza precedenti, perché altrimenti potrebbero avere dei problemi nel corso della vita lavorativa. Mi suggeriscono di procurarmi “un ferro”.




Quando la celebrazione è finita, seguo alcuni partecipanti e mi dirigo verso le strade in cui era possibile parcheggiare. Riprendo l’auto. Il navigatore non funziona e quindi mi oriento da solo nelle vie di San Luca, fino ad arrivare alla provinciale che conduce al litorale. Guardo la natura. Pochi appezzamenti sono costellati da rovi, cespugli, alberi, prati e rocce. Mi fermo a mangiare qualcosa in un bar completamente ristrutturato, piacevole. A Locri, mi aspetta una macchina, a fianco della strada. È una Bmw. La sera, mi fermo a mangiare in riva al mare. Si vedono le barche dei pescatori che hanno salpato dal porto per gettare le proprie reti. Durante il percorso verso Reggio Calabria, il giorno dopo, mi fermo a Gioia Tauro. Scelgo un bel bar, ristrutturato a nuovo, e consumo una colazione abbondante. Mi fa piacere rivedere la cittadina portuale e i suoi abitanti.



02.09.2025 

Dott. Alessandro Ceresa


Frammenti di guerra - Sarajevo...Sara...

Bosnia, dicembre 2005

<<Sparagli Piero, sparagli ora>>… sparagli a morte… la radio slovena trasmette il noto brano di Fabrizio De André. Ho passato da poco il confine e alcuni lavori in corso sull’autostrada mi hanno costretto a impiegare una tortuosa stradina che attraversa i boschi, per arrivare a Lubiana. Trovo una camera in un hotel del centro. È già tardi. Dopo aver lasciato i bagagli in stanza, faccio un giro nel quartiere. Fa freddo. C’è solo un night club aperto sotto l’hotel. Vado a dormire. Il giorno dopo, riprendo l’autostrada che attraversa tutta l’ex-Jugoslavia centrale. Vado veloce, sull’asfalto che potrebbe essere a tratti ghiacciato, viste le temperature dicembrine del clima continentale. Oltrepasso Zagabria. I rapaci che popolano la natura circostante si affacciano sulla via di comunicazione, appoggiandosi spesso alle reti delle recinzioni.

Ascolto la radio croata. Lo speaker dice che la Serbia adesso ha a disposizione anche dei missili al plutonio. Guardo i cartelli stradali. Tra poco c’è l’uscita verso Bosanski Brod. Prendo lo svincolo. Attraverso il ponte malmesso sul fiume Sava e mi ritrovo al di là del confine, in Bosnia Erzegovina. Parcheggio la macchina in uno spiazzo sterrato ed entro nella casupola della dogana. Ci sono un poliziotto e una signora bionda. Ottengo il visto di ingresso, stampato con un timbro sul passaporto. Riprendo l’auto e inizio a seguire le indicazioni verso Sarajevo. Adesso sono nella Repubblica Srpska, una delle due partizioni regionali dello Stato nato dalla disgregazione dei Balcani, a maggioranza serbo-bosniaca.



Inizia a cadere una neve sottile. Le strade sono ghiacciate. L’atmosfera è cambiata. È diventata più tetra. Il paesaggio è povero. La brughiera di alberi secchi e senza foglie ospita talvolta dei borghi, o delle case isolate. Mi fermo in prossimità di un’abitazione completamente distrutta dalla guerra, colpita e incendiata. La fotografo. Da qui è passata tanta, troppa morte. La guerra in Bosnia comportò oltre 100.000 vittime. Continuo a guidare in direzione di Sarajevo, tra strade trafficate. Le macchine dei bosniaci sono vecchie, antiquate, povere. Si sente l’odore acre del gasolio dei camion. C’è un’industrializzazione antica, secondo i nostri parametri, con fabbriche inquinanti, che fanno aumentare la nebbia grigia che è calata nella zona.





Nevica ancora, leggermente. Il traffico procede a rilento. I fanali e le lampadine dei freni delle auto colorano l’oscurità. Giungo a Sarajevo verso sera. Avevo prenotato una camera in un bed & breakfast. Telefono ai proprietari. Ci intendiamo, in inglese. Arrivo alla struttura ricettiva. È posta in una parte della città contraddistinta da abitazioni povere. Incontro il gestore. Mi consegna le chiavi di un monolocale posto al primo piano di una casetta in legno. Nonostante l’aspetto esterno sia modesto, l’interno dell’appartamento è molto pulito e ordinato. Sistemo le mie cose ed esco. È buio. Attraverso Pijaca Markale, un insieme di casette di legno che forma un mercato. Alcuni esercizi sono ancora aperti. Mangio qualcosa. Il massacro di Markale, durante la guerra, causò 43 morti. Nell’ambito dell’assedio alla capitale, le truppe di Mladic bombardarono il mercato. Questo atto di guerra fu fortemente condannato anche in Occidente e fu utilizzato come una delle motivazioni per l’intervento della Nato, la cui aviazione iniziò a colpire le postazioni della Vrs, indebolendone le fila, fino a comportare, nel tempo richiesto, la fine delle ostilità. Vado a coricarmi.





La mattina seguente, prendo la telecamera e inizio ad esplorare la città. Raggiungo la principale arteria che la percorre. Mi pongo di fronte al Parlamento e inizio a filmare. Le mura e le finestre dell’edificio sono ancora annerite dai missili dell’esercito della Repubblica Srpska. Riesco a riprendere anche un carrarmato dell’Eufor, il contingente alleato incaricato di condurre le operazioni in Bosnia. Nevischia ancora e fa freddo. Con la macchina, inizio ad orientarmi nelle vie urbane, tra i sensi unici e il fiume Miljacka. Vedo un altro mezzo dell’Eufor. Parcheggio e inizio a camminare per le strade del centro. I segni della guerra sono evidenti. I palazzi sono traforati interamente dai proiettili degli scontri. A differenza di Beirut, però, i fori delle pallottole sono più grandi. Deduco che le munizioni avevano la componente esplosiva addizionale dell’uranio impoverito, che le rendeva più potenti, detonanti.








Ogni tanto, entro in qualche bar, per riscaldarmi. La sera esco. Giro per le vie. Faccio delle foto e delle riprese. La mattina del giorno dopo, raggiungo in auto le alture che sovrastano il centro urbano. Mi posiziono in un punto adatto, in mezzo alla neve. Sarajevo è una città ferita a morte dalla guerra. Inquadro l’ampio cimitero che ospita migliaia e migliaia di vittime, con i fiocchi del nevischio che scendono lentamente. Si sente ancora il dolore profondo che ha attraversato questa città.




Passo i giorni seguenti nello stesso modo. Ho prenotato il bed & breakfast fino al 31 dicembre. Giro per la città, soprattutto di notte, vivo in mezzo alla gente, la ascolto, cerco di comprenderla, di capire come vivono questi uomini e queste donne, a volte con il viso bianco e cinereo e le occhiaie blu, a volte con i tratti somatici arabeggianti. Decido di fare qualcosa per questa gente, colpita e ferita dalla guerra.







Riparto il 31 mattina. Inizio a percorrere una strada verso nord. L’asfalto è nevoso e ghiacciato, a tratti. A un certo punto, dopo una curva secca, vengo fermato dalla polizia. Hanno un autovelox digitale, simile ad una telecamera, che ha rilevato la mia velocità. Ho superato il limite di pochi chilometri e quindi mi vedo affibbiare una sanzione, pari a circa 50 Euro. Pago e riprendo il mio tragitto. Il tempo è ancora nuvoloso. La neve non smette di cadere, sottilmente.







Arrivo a Tuzla. Leggo bene il nome della città, scritto in cirillico. Improvvisamente, vedo dei reattori nucleari. Non ci penso due volte. Fermo la macchina e inizio a filmare e a fotografare l’impianto. C’era una Chernobyl in Bosnia. Chissà cosa accadde qui durante la guerra. Ottengo la massima definizione dalle immagini. 




Ormai è pomeriggio inoltrato. Procedo verso nord, abbastanza casualmente. Arriva la notte. Al confine con la Serbia, ci sono poche casette di legno che ospitano i doganieri. Entro e chiedo il visto. Mi dicono che devo comprare un’assicurazione per l’auto, al fine di poter circolare in Serbia. Non sono d’accordo, per niente. Mi rifiuto di pagare. Riprendo la vettura, dirigendomi lungo una strada a due corsie. Vengo raggiunto da una macchina rossa, sportiva, che mi sorpassa. Quando mi è a fianco, dal finestrino posteriore un uomo esplode due proiettili. Sento chiaramente gli scoppi. Poi l’auto si dilegua nell’oscurità.

Mentre scrivo, adesso, sono al bar, in mezzo alle studentesse di Pavia. Non potrei immaginare di meglio. Torno ai miei ricordi. Quella sera, era capodanno. I fuochi d’artificio iniziarono ad illuminare il cielo dei paesi bosniaci. Raggiunsi un hotel, presi una bella camera. Il giorno dopo, rientrai in Italia, scegliendo la strada che arriva a Trieste.

14.07.2025

Alessandro Ceresa

 

 

 

Storie di mafia - Palermo

Giunsi a Palermo per la prima volta nel 1980. Mi ricordo le vie e i palazzi, durante l’attraversamento della città. Negli ultimi decenni, il capoluogo siciliano mi ha ospitato varie volte. Guardo il centro urbano, con rinnovato interesse. Immobili storici e giardini si alternano a palazzi più moderni. Penso a quali interventi si potrebbero fare, con l’approvazione della Sovrintendenza, per le strutture antiche.


Le strade sono abbastanza ordinate. Servirebbe qualche appalto in più, come di norma. I luoghi più disagiati sono rari. Ho scelto l’hotel in una zona periferica, ma è dotato di ogni comfort. Mi reco al porto. Prendo un arancino alla rosticceria Ganci, posta sulla curva del molo turistico. Gli esercizi della catena Ganci sono numerosi in tutta la città. Alcuni sostengono che sono indirettamente riconducibili a Giovanni Motisi, così come la “Trattoria Da Ciccio”, indicata come “un covo”.



Poco prima, avevo raggiunto il quartiere Pagliarelli, di cui Motisi è boss indiscusso. La casa circondariale sovrasta gran parte della zona, formata da molteplici palazzine grigie. Mi sono fermato in un baretto posto nelle vicinanze, davanti ad un parco. Sento parlare di un “ristorante sulla salita”. Penso al carcere. Direi che l’avventore del bar potrebbe utilizzare anche il termine “albergo”. Pagliarelli è un quartiere un po’ degradato, in alcuni tratti, ma ci si può vivere bene. Come in altre città, si potrebbe apprezzare un numero maggiore di esercizi pubblici: bar, ristoranti e bistrot rendono di solito la vita urbana più piacevole.




Dopo l’arancino di Ganci, raggiungo il Molo Trapezoidale, un’ampia distesa di locali di nuova realizzazione, situata tra le anse del porto. Le famiglie la attraversano tranquille, nel fresco della sera. Ci sono ristoranti gourmet, spazi d’acqua. 



Prendo un tavolo e mi ritrovo nell’ospitalità siciliana, che peraltro posso apprezzare durante tutta la mia permanenza. Quando finisco di cenare, raggiungo una piazzetta con una gelateria. Bevo un caffè, scambio due parole con la barista e chiamo un taxi. Rientro in hotel.

Raggiungo l’attico. Passo un po’ di tempo ascoltando le voci degli addetti dell’hub della stazione ferroviaria di Giachery. Le loro voci, nell’oscurità, sono quasi un canto, alla luce della luna. Sono voci forti, di uomini che lavorano tutta la notte, anche perché di giorno la temperatura raggiunge quasi 40 gradi.





La mattina dopo, cerco un treno per Bagheria, ma c’è uno sciopero. Provo a contrattare il tragitto con un tassista, che si rifiuta di portarmi a Bagheria, come se ci fosse qualcosa che non va. Avevo sentito dire che Motisi aveva investito in quel centro e volevo capire se l’informazione era valida. Però, nessuno è disponibile, ad un prezzo accettabile, a portarmi nella cittadina quasi adiacente a Palermo.

L’autista mi convince ad accettare un passaggio fino alla spiaggia di Mondello, la spiaggia dei palermitani, posta in un’incantevole baia, con le acque azzurre e cristalline, dove si sente dire che ci sono gli investimenti della Cupola. Guardo i dintorni, prendo un caffè e mi dirigo verso i bagni. La sabbia e il mare caldo mi accolgono per qualche ora. Mondello è una delle spiagge più belle d’Europa. Rimango sdraiato a fianco di una bellissima ragazza con un costume rosa.



Rientrando in città, osservo con interesse le lussuose abitazioni che costeggiano le vie. Avrei voluto mangiare alla Trattoria Da Ciccio, ma è chiusa per il riposo settimanale. Decido di orientarmi prima verso il Grand Hotel et Des Palmes, dove prendo un aperitivo, per poi esplorare i dintorni del Teatro Politeama, dove i visitatori affollano i ristoranti dell’area pedonale. Finisco la serata seduto al tavolo di un bar, da solo, raggiungendo quindi la camera e crollando per la stanchezza.

Quando mi sveglio, faccio il check-out e lavoro un po’. Sento un mio cliente palermitano. Si offre di portarmi a pranzo e poi di condurmi fino all’aeroporto. Guardo il percorso che ci conduce a Sferracavallo. Il quartiere Zen è noto per i problemi legati alla criminalità. A fianco, vi è un’ampia zona con villette residenziali, che stridono in contrasto con l’edilizia popolare. L’urbanizzazione del resto del tragitto è a tratti affascinante. Case a due piani, non moderne, ma ben tenute, si affacciano ai bordi della strada. Le mura color pastello dipingono il quartiere.

La Baia del Corallo profuma di mare, di sale, di salsedine. I ristoranti sono affacciati sul litorale. Scegliamo la Trattoria Il Delfino. Poi raggiungiamo l’aeroporto, tramite lo svincolo di Capaci.

Bollettino di guerra: negli ultimi mesi, a Palermo e nei centri adiacenti sono state registrate ancora alcune vittime di mafia. Gli arresti condotti nel solo 2025, peraltro, sono centinaia.

14.07.2025

Alessandro Ceresa

Storie di mafia – Giovanni Motisi

Ninni Cassarà fu ucciso il 6 agosto 1985 da un gruppo di fuoco di Cosa Nostra. Uno dei killer era Giovanni Motisi, che oggi è probabilmente il latitante più ricercato d’Italia. Tra gli uomini che spararono, c’erano anche Giuseppe Giacomo Gambino, capo della famiglia di Resuttana, Nino Madonia, figlio del boss Francesco, Giuseppe Greco, Mario Prestifilippo, Agostino Marino Mannoia, Giuseppe Lucchese e Francesco La Marca. Secondo le rivelazioni del pentito Salvatore Cancemi, ex boss di Porta Nuova, l’assassinio del capo della sezione investigativa della Mobile, in cui morì anche l'agente Roberto Antiochia, fu richiesto direttamente dalla Cupola della mafia, dai vertici di Cosa Nostra e soprattutto da Totò Riina, Michele Greco, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia e Bernardo Brusca.

Quel giorno, si legge nelle memorie del Ministero dell’Interno, il vicequestore Cassarà, attorno alle ore 15.30, stava rientrando nella propria abitazione di via Croce Rossa per il pranzo, scortato <<da un’Alfetta blindata e da tre agenti di Polizia: Roberto Antiochia, Natale Mondo e Giovanni Salvatore Lercara>>. Una volta giunto all’abitazione e dopo aver salutato la moglie, Laura Cassarà, affacciata al balcone dell’appartamento, <<un commando di nove uomini, armati di kalashnikov>>, sparò, <<affacciandosi dallo stabile di fronte, in direzione di Cassarà>>, appena sceso dalla macchina blindata. <<Nell’agguato, furono esplosi più di duecento colpi d’arma da fuoco>>, che portarono alla morte del vicequestore Cassarà sulle scale di casa propria, spirato fra le braccia della moglie, accorsa per soccorrere il marito. Ninni Cassarà lasciò tre figli. Il commando che eseguì l’omicidio attese per ore che la vittima rientrasse a casa.

Giovanni Motisi restò un componente di assoluto rilievo di Cosa Nostra, agendo come sicario di Totò Riina. Posto come reggente al vertice del mandamento Pagliarelli, Motisi oggi ha 66 anni. Notizie recenti, poi smentite, hanno indicato come possa essere morto in Colombia per un tumore al pancreas, ma probabilmente si tratta della solita disinformazione. D’altra parte, è più verosimile che Giovanni Motisi abbia mantenuto un ruolo di spicco in Cosa Nostra, peraltro celato. C’è chi vede in lui un riferimento di vertice della consorteria, dopo l’arresto e la scomparsa di Matteo Messina Denaro. A Palermo, i suoi sostenitori sono numerosi.

25.05.2025

Alessandro Ceresa

Storie di mafia – Berlusconi, il cash, il carrello della spesa, l’Antitrust e i servizi deviati

 <<Quando c’era Berlusconi, i contanti venivano trasferiti con i furgoni, anche in altri Stati europei>>. La mia fonte spiega con dovizia il sistema di remunerazione dei costi per pubblicità, oggetto di fatture gonfiate per creare oneri deducibili in capo agli acquirenti degli spazi promozionali. <<Adesso, i suoi figli, non sono più disposti ad alimentare questo sistema. Prima, gli accordi prevedevano che a fronte di prezzi applicati in modo esagerato, una percentuale dovesse essere ritrasferita alla ditta che aveva comprato gli spot, in contanti>>. Ovvero, tutto in cash… e il pensiero non può non andare alle indagini riguardanti i fondi neri della Fininvest, che secondo alcune stime, negli anni, hanno superato 1 miliardo e 200 milioni di Euro. <<Questo sistema viene usato anche dalle associazioni e dalle società sportive dilettantistiche, a ogni livello. Propongono promozioni delle squadre a valori spropositati e ne restituiscono una parte, fino all’80%, in contanti. Chi sostiene la spesa ottiene dei costi deducibili e disponibilità di “nero”, che serve per altri impegni, come quelli degli straordinari dei dipendenti>>.



Però, questo è solo un aspetto di tutto il business delle televisioni. Sappiamo tutti delle frodi fiscali, con ingenti quantità di denaro sottratte all’erario con ogni espediente, fino ad arrivare ai capitali dirottati verso i paradisi fiscali esteri. Il mercato della pubblicità, in Italia, ha un indotto di miliardi di Euro, spartiti tra i pochi attori che compongono l’oligopolio. I prezzi degli spot, di conseguenza, sono maggiori di quelli di un settore che opera in regime di libera concorrenza e l’inefficienza si riflette in ultimo sui valori delle merci al consumo. Praticamente, la gente paga gli acquisti, direttamente posti nel carrello della spesa, a costi che comprendono una quantità spropositata di pubblicità e il surplus di inefficienza derivante dai margini elevati che permette l’oligopolio. Il costo della spesa diventa così esagerato. Ma non solo. Chiaramente, gli oligopolisti mettono in atto ogni tipo di comportamento, spesso scorretto, per difendere la loro posizione all’interno di questa struttura del mercato.

Tralasciamo le imbecillità che producono quei poveri ritardati mentali che affollano i programmi televisivi, i messaggi subliminali trasmessi tramite le frequenze, che invitano anche i ragazzini ad accelerare in macchina. Trattiamo argomenti più seri, come le concessioni. Mi ricordo esattamente come il gruppo Mediaset, in evidente violazione di ogni regola antitrust, disponesse di concessioni esterne, formalmente al di fuori dei confini giuridici delle proprie aziende, gestite da prestanome e da società quasi fittizie. In altri termini, Berlusconi, per proteggere i propri guadagni, aveva fatto incetta di concessioni televisive e le faceva gestire ai propri amici e collaboratori, tra cui Tarak ben Ammar. Controllando anche tramite Publitalia e imprese connesse, o collegate, anche il mercato degli spot promozionali, le scorrettezze si moltiplicavano, al fine di porre delle barriere all’ingresso insormontabili a difesa della posizione oligopolistica, nel silenzio dell’Antitrust.

Questo aspetto costituì uno dei motivi che ne originarono anche la decisione di entrare in politica. Con il placet di Craxi, oltre alla tutela dei propri interessi, la motivazione fu ascritta all’argine che si intendeva porre alla sinistra post-comunista, che trovò un supporto in un’ala dei servizi segreti ascrivibili al Pentapartito. Perché ogni partito disponeva dei propri servizi segreti: era nota la politicizzazione del comparto, che iniziava con le nomine di vertice. C’erano quelli della Dc di Andreotti, del Psi dello stesso Craxi… lo stesso Pci era organizzato con i propri adepti e referenti… persino la lega di Bossi in seguito costituì nel partito un proprio servizio, divenuto inesorabilmente deviato… e questo è un argomento da approfondire, perché riporta alle connessioni tra Stato e mafia, di uno Stato-mafia che fatica a svilupparsi in virtù anche del fatto che la classe politica e composta da ignoranti, da incompetenti. La politica degli ultimi 50 anni si è rivelata fallimentare e decadente. Perché infine è stato trascurato il modello di società valoriale, che assume gli ideali come priorità, ed è stato trasformato tutto in un sistema che fa pensare solo ai soldi, in cui gli individui diventano abietti, meschini e disonesti sol per “fare soldi”. Pavia docet.

Frammenti di guerra: Natanz e il programma atomico dell'Iran

 

Iran, agosto 2006 - La gente riempie lo spazio davanti al palco. La piazza di Teheran è gremita. La manifestazione esprime lo sdegno del popolo iraniano nei confronti del regime israeliano, che ha di nuovo aggredito il Libano. La guerra continua da alcune settimane. I bombardamenti di Tel Aviv non si fermano e mietono vittime. Alcune donne espongono le foto dei morti e dei feriti. Hanno il caratteristico velo sul capo. Piangono. Hanno posto alcune candele su degli altari improvvisati. 




Gli iraniani chiedono vendetta. Gli oratori fanno sentire la propria voce con i megafoni. Alcune immagini sono dedicate a Nasrallah, leader di Hezbollah, il movimento della resistenza libanese. Nell’ambito della Guerra al Terrorismo, vedo l’aggressione di Israele al Libano come un corollario dei conflitti in corso in Iraq e in Afghanistan. La folla è agitata. Mi muovo tra di loro. Faccio delle fotografie. L’illuminazione è scarsa. Sono l’unico bianco, occidentale, in mezzo a tutti gli iraniani, ma non riscontro problemi. Quando la gente inizia a diradarsi, seguo il flusso principale e rientro in hotel.

La mattina del giorno dopo, prendo un taxi e raggiungo la casbah, nel centro di Teheran. Non ci si può immaginare l’urbanizzazione della capitale come qualla dei nostri agglomerati. In un’ipotetica scala temporale, il livello di sviluppo dell’Iran è in ritardo di circa 30 anni rispetto a quello dell’Occidente e questo aspetto viene riflesso in ogni caratteristica del tessuto economico e politico. La casbah è formata soprattutto da un mercato coperto, posto nel basamento di un grande palazzo. Ai margini, ci sono delle bancarelle, ma la maggior parte del commercio si svolge nei negozietti all’interno, le cui superfici di vendita sono separate da vetrate. Guardo gli oggetti esposti. Non vi è nulla che mi possa interessare. Ho con me alcuni travellers cheques che ho acquistato in banca, in Italia, prima di partire. Devo cambiarli. Passo un po’ di tempo nei corridoi della casbah. Gli esercizi non sono molto frequentati. Al di fuori, alcune persone aspettano il collegamento degli autobus. Vedo alcune donne. Anche loro hanno il capo coperto, nel pieno rispetto della legge islamica. Fumo un paio di sigarette e mi metto a fissarle. Normalmente, i miei lineamenti sono apprezzati. In Iran, questo potrebbe essere considerato un comportamento inopportuno, ma mi piace sempre sfidare le regole anguste e desuete.



Quando rientro all’Hotel Enghelab, che mi ospita per un paio di settimane, recupero in camera tutti i travellers cheques che intendo cambiare e raggiungo uno sportello bancario in grado di eseguire l’operazione. Ottengo i Rials che mi possono permettere di affrontare i prossimi giorni. Dalla finestra della camera, vedo l’orizzonte urbano della città. Distinguo subito il palazzo dell’azienda di telecomunicazioni statale. Scatto alcune fotografie. Si tratta di un obiettivo strategico, che potrebbe essere colpito in caso di conflitto. Al tramonto, gli altoparlanti posti agli angoli delle principali strade diffondono la preghiera del muezzin. È armoniosa, melodiosa. La sera, passeggio nelle vie buie del quartiere. Quando mi risveglio, la mattina dopo, faccio un’abbondante colazione, che sarà l’unico pasto della mia giornata, e mi soffermo nella hall ad ascoltare i dialoghi di due italiani. Decido di presentarmi. Sono dei dipendenti della Rai. Gli chiedo che programmi hanno. Dicono che vogliono raggiungere Isfahan. Gli spiego che io intendo andare a Natanz.

Ci congediamo. Il tassista che ho ingaggiato mi aspetta davanti alla reception. È un uomo di circa 55 anni, con dei grandi baffi e la corporatura robusta. L’auto, di colore giallo, è antiquata e abbastanza scassata. Salgo sul sedile posteriore. Ho con me la macchina fotografica, i documenti e un coltello. Dalla mia posizione, posso agevolmente avere la meglio in caso di contrasto con l’autista. Avrei sempre adottato questo sistema nei Paesi arabi. Iniziamo il tragitto verso Natanz. Attraversiamo la periferia industriale di Teheran e prendiamo l’autostrada. Il percorso è tranquillo. i cartelli sono scritti sia in Farsi, sia in inglese. A un certo punto, la carreggiata cambia conformazione. L’autostrada è finita e prendiamo una via a tre corsie, piena di buche, sconnessa, in cui il traffico è indirizzato sulle due corsie esterne, negli opposti sensi di marcia. La parte centrale è destinata ai sorpassi, per chi procede in entrambe le direzioni. Il tassista procede a circa 100 chilometri all’ora. Ci sono molti camion, vecchi e sconquassati, oltre a macchine più lente, che ci costringono spesso a veloci sorpassi.

Arriviamo a Qom, un abitato abbastanza popolato. Fa caldo, ci sono circa 40 gradi, l’ambiente è arido, desertico e roccioso. Il clima afoso è opprimente. L’autista mi dice che vuole fermarsi presso il monastero. Raggiungiamo lo stabile e prendiamo una meritata pausa, passeggiando nelle stanze fresche. Un ruscello d’acqua costeggia i muri. Ne bevo un sorso. Il monastero di Qom, mi spiega il tassista, è islamico, ma è dedicato alla tolleranza tra le varie religioni. Apprezzo questo pensiero. Riprendiamo il nostro itinerario. Lasciamo la via principale e prendiamo la strada laterale che conduce a Natanz. Sono sicuro che è il tragitto giusto. Lo avevo studiato sulle mappe della regione e l’autista sta dirigendosi nella direzione giusta. Ci inoltriamo verso sud, in mezzo a rocce e cespugli. All’improvviso, in mezzo all’ambiente arido e inospitale, appare il sito atomico di Natanz.



I tetti bianchi dei caseggiati si distinguono in mezzo al deserto. Prendo la macchina fotografica e scatto subito le prime immagini. Ai margini esterni del sito, ci sono le torrette militari dell’esercito iraniano. Si intravedono gli immobili posti in mezzo al perimetro. Il cancello di ingresso è controllato. So che in Occidente vi è incertezza in merito all’effettiva attività che l’Iran sta intraprendendo nell’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz, in violazione dei principi di non proliferazione atomica. Io scopro invece un sito perfettamente funzionante, operativo a pieno regime, nell’ambito dello sviluppo del programma di ottenimento di uranio arricchito volto ad alimentare armamenti atomici, voluto da Khamenei e Ahmadinejad nel contesto dell’egemonia che l’Iran vuole consolidare nell’area e nell’ottica di poter rappresentare una minaccia concreta per Israele.



Passato l’impianto, percepisco sensazioni di acuto mal di testa, bruciore agli occhi e blocco alla gola, che potrebbero essere dovute a un campo di radiazioni elettromagnetiche, alle esalazioni di gas, alle radiazioni o ad altre attività nucleari. La centrifugazione dell’uranio esafluoride UF6 origina la divisione degli isotopi più leggeri di U235 da quelli più pesanti di U238 in un numero ripetuto di fasi e permette di ottenere uranio arricchito (ad alta concentrazione di U235). La parte rimanente è definita uranio impoverito, elemento con notevoli proprietà infiammabili ed esplosive, impiegato normalmente in ambito militare. Raggiungiamo l’abitato di Natanz e ci fermiamo. 



Faccio un paio di foto e fumo una sigaretta. Poi dico all’autista di tornare al sito. La vista da sud mi permette di fotografare le altre torrette del bordo di delimitazione e, soprattutto, una postazione contraerea per il lancio di missili terra-aria, posta a difesa della struttura, posizionata in cima ad un ammasso di argilla.





A breve distanza, noto la colonna di fumo tipica di un ordigno, che si erge nel panorama desertico. Potrebbe essere un missile, sparato nell’area. Riprendo la macchina fotografica e scatto a ripetizione. Vedo le strutture cilindriche tipiche di piccoli reattori tra i capannoni bianchi e beige, oltre ad una ciminiera. Le turbine per il procedimento di arricchimento sono nel sottosuolo. Sono sicuro che l’attività atomica è notevole. La probabilità di dispersioni nocive nell’ambiente è stata ovviamente ponderata da chi ha progettato l’impianto, che infatti è stato dislocato in una zona difficilmente raggiungibile, distante dai centri abitati. Riprendiamo la strada verso la capitale.

Perfetto, il blitz è riuscito. Ho usato uno schema militare per raggiungere Natanz, una firefox, una volpe di fuoco. Imprendibile. In hotel, estraggo la scheda dalla macchina fotografica e ne inserisco una vuota. Scendo nella hall. Devo saldare il taxi. Si presenta il manager dell’albergo, Sarkoz. Saliamo al primo piano. Non c’è nessuno. I corridoi e il grosso androne sono nella penombra. Sarkoz è vestito con giacca grigia e camicia. È magro, con il viso scuro. Gli passo i soldi concordati. Li conta velocemente e annuisce. Torniamo nella reception. Passo le ore seguenti passeggiando nelle vie buie del quartiere, oppure rilassandomi nella hall, guardando gli ospiti dell’hotel e soprattutto le donne. In Iran, non ci sono bar aperti al pubblico. Forse anche questa è una regola del regime. La gente, quindi, frequenta spesso gli alberghi. Vado a coricarmi.

Quando mi sveglio, prendo subito la mappa in cui ho evidenziato la posizione del Teheran Nuclear Research Centre. Non è molto distante. Fermo un taxi e indico all’autista l’area che devo raggiungere. Quando scendo, faccio pochi passi e trovo subito il centro di ricerca che fa parte del programma nucleare. Sento un rumore continuo, simile a quello di una turbina, che proviene da un fabbricato con la copertura rotonda. Scatto subito delle fotografie. Giro l’angolo e a fianco di un caseggiato appartenente al sito vedo un militare di guardia. È armato, porta un fucile mitragliatore di grosse dimensioni, più grande anche degli M16 occidentali. Ha il fisico molto muscoloso, frutto di molte ore di allenamento in palestra. Continuo a camminare tranquillamente. Immagino che si possa chiedere come mai ci sia un occidentale vestito con t-shirt e calzoni corti, con le scarpe da ginnastica, che passa davanti ad un sito nucleare strategico. Raggiungo la parte posteriore del centro. C’è un ampio prato, delimitato da recinzioni. Fotografo tutta la zona. Ne deduco alcune informazioni. Il TNRC continua ad avere una modesta attività, ma la parte più importante del programma atomico iraniano è sicuramente posta altrove. Sono convinto che già dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il regime di Teheran avesse ottenuto la fornitura di alcune testate atomiche.



Torno in albergo. Prendo anche la telecamera e mi dirigo verso la sede dell’università, situata a breve distanza. Negli scorsi mesi, questa facoltà è stata teatro di alcune proteste organizzate dagli studenti contro il regime. Accade spesso che le università siano il motore del dissidio nei confronti delle dittature, in quanto fonti di competenze e di pensiero libero, moderno e indipendente. Fotografo e riprendo i palazzi. Poi mi dirigo verso un incrocio, dove posso filmare molteplici angoli della città. Noto una moto con a bordo due uomini che si muove a pochi metri da me. Non mi faccio problemi. Ho posto la telecamera sul cavalletto e sto preparando delle immagini stabili. Mi ritengo abile, allenato e veloce. Ho la situazione sotto controllo. Quando finisco le riprese, ripongo la telecamera nello zaino e mi incammino sul marciapiede di Enghelab Avenue. A 20 metri di distanza dall’hotel, all’improvviso, in una frazione di secondo, sento la moto accelerare alla mie spalle. Il passeggero afferra il mio zaino e riesce a prenderlo, strappando la spallina che mi permetteva di portarlo. Il guidatore accelera.

La moto si allontana. Mi metto a correre per inseguirli. Immediatamente, una macchina bianca, con una fascia arancione, si ferma davanti a me. L’autista ha dei piccoli baffi, è alto e magro. Salgo a bordo rapidamente e gli dico di inseguire la motocicletta. La macchina parte, ma non capiamo dove possano essersi diretti i due ladri. Giriamo in una delle strade principali. Ad un distributore di carburante, c’è una moto ferma, ma i due motociclisti hanno le magliette invertite. Il guidatore ha quella bianca e il passeggero quella verde, esattamente all’opposto dei due scippatori. L’autista si fera. C’è una cabina del telefono. Avviso i miei familiari di essere stato derubato. Poi dico all’ometto di riportarmi in albergo. Lo zaino conteneva la telecamera e la macchina fotografica. Sono assicurato, ma devo fare denuncia.

Riposo un po’ e dopo mi dirigo alla stazione di polizia prospicente. Faccio fatica a farmi intendere, in inglese, ma riesco a spiegare la situazione. I poliziotti mi dicono di salire su una delle loro macchine. Iniziamo a perlustrare le vie di Teheran. Arriva la notte. A un certo punto, gli agenti si fermano in prossimità di alcuni loro colleghi. Passano alcuni minuti. Poi mi presentano un uomo, che hanno appena arrestato. Mi chiedono se è uno dei miei rapinatori. Rispondo di no, non lo riconosco. Torniamo alla caserma. C’è un po’ di confusione in Enghelab Avenue. Un individuo cerca di fuggire. Un poliziotto lo insegue con la moto e lo colpisce con la ruota. Mi dicono di entrare nella sede. Ci dirigiamo al piano inferiore, in una grande stanza con decine di sedie di plastica. Mi accomodo.

All’improvviso, un ricercato viene spinto nella sala. È stato ammanettato. Ha le mani dietro la schiena. Le manette sono strette. Un agente lo spinge verso il bancone posto in fondo, prendendolo a calci. I suoi colleghi lo accolgono. Trascorre ancora del tempo, circa mezz’ora. Poi un poliziotto mi consegna un plico con la mia denuncia. Dovrò farla tradurre per poterla consegnare all’assicurazione. Mi dicono di uscire. Vado in camera. Il giorno dopo, devo inviare un articolo ad un quotidiano. Trovo un internet point. Preparo il file in formato testo. La linea del modem è lenta. Noto che diversi siti sono bloccati. Il web è controllato e limitato dal regime. Per fare un esperimento, cerco delle immagini di Pamela Anderson. Riesco a visualizzarle. Ne scarico una. È abbastanza sexy. La invio alla mia posta. Finisco di scrivere e spedisco l’articolo alla redazione. Non so nemmeno se sarà pubblicato. Gli accordi erano questi, ma le scorrettezze dei redattori del quotidiano sono spesso incredibili. Il settore dei media, in Italia, purtroppo, è gravemente malato. All’oligopolio del comparto televisivo si somma un’informazione condizionata dalla politica oltre ogni ragionevole livello di tolleranza. È uno schifo. L’opulento mercato della pubblicità è appannaggio di pochi oligopolisti, che pongono barriere all’ingresso in ogni modo, lucrando miliardi di Euro, che poi, ovviamente, vengono infine pagati dai consumatori con i propri acquisti.

Passeggiando, vedo i giovani iraniani. Sono corpulenti, atletici, palestrati. Sembrano più forti di noi. L’Occidente però ha eserciti migliori. Questi ragazzi imparano a sparare con i kalashnikov a 15 anni. Passo i giorni seguenti cercando di centellinare i pochi soldi che mi sono rimasti. Non mangio mai a pranzo e a cena. Cammino molto. Scrivo. Giunge finalmente il giorno della partenza. Raggiungo in taxi l’aeroporto cittadino. Sono vestito con jeans e maglietta. Ho messo la scheda con le foto di Natanz nel taschino di destra dei pantaloni. È quanto mi è rimasto dopo il furto. Eseguo il check-in. Per passare il metal detector, i controlli sono accurati. Devo estrarre anche la scheda con le fotografie. Mi lasciano passare. Salgo a bordo del volo Alitalia che mi deve riportare a Milano. Prendo il mio posto vicino al finestrino. L’aereo inizia a muoversi lentamente. Passiamo a fianco dell’ala militare dello scalo. Vedo i jet dell’aviazione iraniana. Sono dei Sukhoi di produzione russa. Dopo il decollo, finalmente le hostess mi fanno avere un pasto caldo. Sono parecchi giorni che non mi alimento con qualcosa di decente.

Al mio rientro, riesco a trasferire le immagini sul pc con un adattatore. Adesso, ho le uniche, rarissime, fotografie dell’impianto di Natanz in attività. Preparo un rapporto dettagliato in inglese e invio tutto ai contatti che ho selezionato: Nato, eserciti occidentali, ex-Kgb e Global Security. La guerra scatenata da Israele contro il Libano è ancora in corso. Mi ricordo di aver conosciuto Simon Peres al Meeting Ambrosetti alcuni anni fa. Cerco il contatto della sua mail e invio anche a lui il rapporto. Ormai è chiaro che l’Iran sta ottenendo materiale atomico bombabile.


21.04.2025

Alessandro Ceresa