Frammenti di guerra: Osirak e Al-Tuwaitha

Dicembre 2008 - Lo spedizioniere mi consegna la busta con il passaporto, proveniente dall’Ambasciata dell’Iraq in Italia. Controllo il visto che hanno rilasciato. È perfetto: mi permetterà di entrare a Baghdad senza essere deportato. In pomeriggio, prenoto i voli aerei. Il primo tragitto è semplice: raggiungerò Beirut. Riesco a trovare anche la seconda tratta tramite una compagnia minore, ma dovrò ritirare il ticket cartaceo presso un’agenzia nella capitale libanese. Trascorro i giorni seguenti a preparare l’itinerario.

L’obiettivo della mia missione è il reattore atomico di Osirak, posto nel sito di Al-Tuwaitha, alla periferia di Baghdad. Voglio controllare direttamente la situazione e il centro voluto da Saddam Hussein per la proliferazione di armi di distruzione di massa, che in passato fu bombardato sia dall’Iran, che da Israele. Mi piace lo spionaggio, ma fare la spia anche durante una guerra è qualcosa di più, è grandioso. Gli obiettivi di high-intelligence e i siti sospetti hanno costituito il motivo di interesse fondamentale della mia attività di free-lance negli ultimi anni.


L’aereo da Milano a Beirut atterra di notte. Esco dall’aeroporto e fumo qualche sigaretta nella fresca aria dell’oscurità, in compagnia di rari viaggiatori e di libanesi in qualche modo addetti allo scalo. Poi scelgo di salire su un taxi e mi faccio portare in città. Raggiungo l’hotel e aspetto nelle vicinanze che arrivi il momento di fare il check-in. Passeggio nelle strade, consumo qualcosa negli esercizi aperti a fianco del luna park. Quando posso salire in camera, mi metto subito a dormire. Esco solo per ritirare il biglietto per Baghdad all’agenzia. La sera, vado a mangiare qualcosa. Raggiungo un locale tipico libanese, che conosco già, in riva al mare. L’ambiente è elegante. I baristi sono gentili. Nella parte aperta del bistrot, sul molo, alcuni ragazzi giocano con delle tartarughe giganti che hanno raggiunto la riva. Alcune si sono capovolte. Le raddrizzano e permettono loro di riprendere a nuotare. Finisco la serata tranquillamente e vado a coricarmi.

Il jet che da Beirut mi porta a Baghdad è alimentato da due piccoli reattori, ma non è un boeing. Al contrario, sembra più un aereo privato. Il volo verso Baghdad non dura molto. Quando atterriamo nella capitale irachena, sono facilitato nei movimenti dal bagaglio agile che porto, ricondotto solo a un grosso zaino da trekking. Come di norma, esco subito a fumare un paio di sigarette. Baghdad, eccomi. Il top della jihad è qui. La capitale irachena è l’epicentro maggiore della guerra in Iraq, che per intensità di fuoco rappresenta il conflitto più importante della Guerra al Terrorismo che impegna gli eserciti occidentali. Mi soffermo nella hall. Ci sono dei militari tedeschi che ritirano i loro bagagli. Raggiungo le macchine in sosta. Individuo un taxi. Contratto il prezzo e mi faccio portare all’Hotel Babylon, in città.


Le strade che collegano l’aeroporto al centro urbano sono malandate. I guardrail sono spesso divelti. L’asfalto è dissestato. Anche il parabrezza della macchina è scheggiato dai proiettili vaganti. Oltrepassiamo un paio di checkpoints. Gli iracheni controllano il mio passaporto e regolarmente mi fanno passare. Perfetto. Sono entrato. 



Per raggiungere l’hotel, il tassista percorre nell’ultimo tratto la strada che costeggia il fiume Tigri. Poco prima della struttura, un uomo in mezzo alla strada, vestito in tenuta da miliziano, punta verso di noi un fucile a pompa. L’autista prosegue tranquillo. Il paramilitare non spara. Lo oltrepassiamo e giriamo in una via laterale. Dopo pochi metri c’è l’ingresso dell’albergo. Entro e chiedo alla reception se hanno un posto per dormire. Prenoto un paio di notti e salgo in camera, al terzo piano. Metto in ordine i miei effetti personali e sento subito uno scroscio di spari provenienti dalla strada. Mi affaccio alla finestra e cerco di filmare lo scontro a fuoco, che continua per diversi minuti. Non vedo chi spara, ma registro tutto il combattimento.

Dal balcone, si vede il Tigri, con l’acqua azzurra e il fondale chiaro, che divide il resto della città dalla Green Zone, dove sono posti i palazzi del potere, il Governo e il Parlamento, strettamente situata sotto il controllo delle truppe statunitensi. Si tratta di una piccola “isola” all’interno di Baghdad, in cui dovrebbe essere garantita la sicurezza di chi vi opera. Per entrarvi, vi sono alcuni checkpoints e i controlli sono oppressivi. L’intera area è delimitata. Io sono all’esterno, nella Red Zone, la zona rossa, dove può accadere di tutto. Filmo un paio di elicotteri blackhawks americani che sorvolano la Green Zone. Baghdad. Il cielo è limpido, il clima tiepido, nonostante l’approssimarsi dell’inverno.

Esco dall’hotel e inizio a perlustrare a piedi il vicinato. Cerco di orientarmi nel quartiere. Non c’è molta attività commerciale. A un certo punto, si sente il fuoco di alcuni kalashnikov. È iniziato un altro scontro. I contrasti provocati dai miliziani sono frequenti. Si sentono i colpi dei proiettili. Alcuni iracheni camminano nei paraggi. Io sono senza giubbotto antiproiettile. Potrei mettermi al riparo di un albero, ma continuo a passeggiare. Se dovessi essere colpito, significherebbe che è giunta l’ora del mio destino, ma non conosco la probabilità che questo accada, che ritengo remota. I passanti si comportano allo stesso modo, quasi incuranti di cosa possa succedere. La scaramuccia armata finisce. Si sentono ancora alcuni colpi in allontanamento.

Ormai ho percorso diversi chilometri dall’albergo. Fermo una macchina. È un’antica e scassatissima auto rossa, simile ad una Zigulì. Il vecchio alla guida ha due baffi castani. Il parabrezza è infranto dai proiettili. Gli dico di portarmi al Babylon. Ci capiamo, un po’ in inglese e un po’ a gesti. Mi chiede 4 dollari. Salgo a bordo e iniziamo a percorrere alcune strade trafficate. Ogni tanto, il vecchietto si anima e urla qualcosa dal finestrino. Capisco che c’è una grande parte della popolazione che è schierata a fianco degli insurgents, gli insorti, i rivoltosi che si oppongono all’occupazione statunitense, che ottiene la collaborazione delle forze di sicurezza.

Torno in camera a riposare un po’. Poi raggiungo il secondo piano, in cui trovo una sala comune. Ci sono alcuni uomini impegnati a giocare a boccette ad un tavolo verde e alcune donne sdraiate su un divano logoro e sporco. Il loro aspetto lascivo mi fa persino sospettare che si tratti di donne di facili costumi. Una di loro mi lancia delle occhiate. Mi piacerebbe riuscire ad interagire. Provo a formulare un saluto in inglese, ma non ottengo risposta.

Il mattino seguente mangio qualcosa per colazione e inizio subito a studiare la mappa della città che mi sono stampato prima di partire. Sadr City, la fortezza delle milizie sciite della Mahdy Army, non dista molto. In attesa di raggiungere Osirak, entrare a Sadr City potrebbe essere un buon obiettivo. Così, come dimostrazione di abilità, tanto per iniziare a fare un allenamento. Nella hall, chiedo se c’è un tassista disponibile. Vengo messo in contatto con un uomo sui 55 anni, con i capelli e i baffi grigi. Gli spiego dove voglio andare. Usciamo e saliamo in macchina.



Il tragitto, attraverso le strade polverose di Baghdad, è agevole. Ci sono molte auto in giro. Guardo i fabbricati posti al riparo di muri di cemento, che li proteggono dai proiettili e dalle esplosioni. Vedo per le strade alcuni mezzi dell’esercito iracheno. Filmo tutto, seduto sul sedile del passeggero. A un tratto, l’autista svolta verso destra e prende una via a doppia corsia. <<Sadr City>>, mi dice, indicando un insieme di quartieri delimitato da una muraglia azzurra, oltre la quale si vedono numerosi caseggiati, attrezzati anche con antenne paraboliche. Aggiusto lo zoom della telecamera e continuo a riprendere. Una macchina si avvicina alla nostra sinistra e si affianca a noi.


Omissis…

Ci sono eventi troppo cruenti, che al momento non posso narrare, ma che saranno riportati nella versione integrale del libro…

Omissis…

La camionetta dell’esercito iracheno sfreccia per le vie di Baghdad, nell’oscurità. Sono seduto sul sedile posteriore. Davanti a me ci sono due militari. Anche loro hanno lo stemma con il teschio delle Special Forces. Guardo la città dal finestrino. Ok. Penso che sia il loro modo per farmi le palle, per costruire l’iron man, l’uomo di acciaio. Arriviamo davanti ad una palazzina elegante, che ospita il comando americano. Mi fanno scendere e mi portano al secondo piano. Seduti ad un’ampia scrivania, ci sono gli ufficiali statunitensi. Uno di loro è un generale.

Un soldato della Us Army rimane in piedi, a fianco della porta. È alto, biondo, bianco, con il fisico palestrato. Porta in mano, con semplicità, un MK48, probabilmente il miglior fucile mitragliatore che esista. Spara proiettili calibro 7,62, che hanno una capacità di perforazione superiore. Figo. Mi fido ciecamente della Us Army, come dell’esercito italiano, degli altri eserciti occidentali e dell’ex-Kgb. Sono sicuro che mi tireranno fuori da qualsiasi situazione incredibile in cui io possa essere in grado di cacciarmi. Mi dicono di raggiungere nei giorni seguenti il Media Centre statunitense posto nella Green Zone. Vengo riaccompagnato in hotel.

Mi sveglio con calma. Quando raggiungo la hall, un addetto mi spiega che il tassista è venuto a cercarmi. Incontro l’uomo, seduto ad un tavolino. Mi chiede giustamente il pagamento del tragitto. Ci accordiamo per 100 dollari, che gli saldo subito. Pretendo la ricevuta e mi rilascia un pezzo di carta leggera, intestato. Sapevo già per esperienza che in Iraq non avrei trovato nessun servizio bancario, bancomat, o cose del genere. Non ho portato con me nemmeno la carta di credito, ma ho cambiato circa 2.000 dollari prima di partire e ho la riserva di contanti sempre con me. Anche gli alberghi sono costosi. Inizio a camminare nella via del Babylon. C’è un ponte pedonale che attraversa il Tigri e che conduce alla Green Zone. Salgo i gradini e vengo bloccato. Non posso passare, nonostante vi siano numerose persone che lo attraversano. Mi dicono che devo presentarmi al Checkpoint 3 per entrare.


Fermo una macchina. Dico all’autista dove deve portarmi. Riusciamo a capirci. Iniziamo il percorso, anche tortuoso, che deve innanzitutto attraversare il fiume e poi raggiungere l’estremità della zona internazionale, dove arriviamo abbastanza velocemente. Il tassista mi lascia a 100 metri dallo sbarramento che delimita l’area. Cammino verso l’ingresso. Noto subito che l’asfalto a tratti è bruciato, annerito, dalle autobombe. Ci sono alcuni negozietti ai margini della via. Il primo sbarramento è il più difficile da oltrepassare.

Devo spiegare ai militari iracheni preposti al controllo iniziale che sono un giornalista, che ho un visto regolare per stare in Iraq e che devo raggiungere il Media Centre americano. Mi lasciano accedere a tutto il percorso di controlli: occorre attraversare dei metal detector, far controllare gli effetti personali, farsi perquisire, lasciare gli oggetti di ferro. È tutto organizzato in una serie di barriere che interrompono un cunicolo tortuoso, protetto da muraglie e filo spinato, al termine del quale si riesce finalmente ad accedere al palazzo che, nel seminterrato, ospita sia il Media Centre, sia dei container in cui sono state poste le rappresentanze diplomatiche di alcune nazioni, verso le quali c’è un incessante movimento di persone, intenzionate a farsi rilasciare dei visti opportuni.

Il Media Centre è semplicemente ospitato in una grande stanza, all’interno della quale vi sono 3 postazioni di personal computer ed alcuni letti. La connessione internet è debole e instabile. Anche la rete telefonica, che in Iraq funziona solo qualche ora ogni giorno, è saltuaria. Lo noto precisamente, perché di norma tengo nota dei nomi dei provider telefonici negli Stati in guerra, siccome sono loro che forniscono il servizio di comunicazione. Ci sono alcuni militari statunitensi che controllano la zona.

Riesco a parlare con un sergente, che risulta essere incaricato della supervisione di tutta l’attività. Mi dice che se voglio, posso chiedere di essere aggregato (embedded) all’esercito americano in Iraq come giornalista e che devo fare opportuna domanda. Mi fornisce la modulistica, che compilo precisamente. Concordiamo l’argomento del mio lavoro: dovrò soprattutto eseguire dei rapporti in merito ai siti sospetti iracheni, che costituivano la struttura del sistema di preparazione di armi di distruzione di massa di Saddam Hussein (WMD: Weapons of Mass Destruction), che ha motivato l’invasione statunitense decisa da George W. Bush, così come le connessioni tra il regime di Saddam e Al-Qaida.

Apprendo da una notizia in internet che è appena scoppiata un’autobomba in un mercato. Esco dal Media Centre rifacendo al contrario il percorso di entrata e recuperando i miei effetti. All’esterno del Checkpoint 3, fermo una macchina e gli dico di portarmi sul luogo. Impieghiamo circa mezz’ora. Devo ripetere le coordinate di destinazione all’autista un paio di volte. Quando arriviamo, vedo un autobus e un’ambulanza, in mezzo alla polvere e al disordine, ma gli altri residui dell’attentato sono già stati rimossi e le persone sono state soccorse e portate in ospedale. Mi faccio ricondurre al Babylon.

Esco di nuovo al tramonto. Di fronte all’albergo, ci sono alcune baracchine che vendono generi alimentari. Prendo una bibita e mi siedo ad un tavolo di plastica. Fumo qualche sigaretta. Assaporo il momento, con il sole che lascia spazio al buio. Inizio a sentire un po’ di freddo. Sono abbigliato con una tuta e una semplice k-way. Arriva una macchina nera. Scendono due uomini vestiti di scuro. Aprono il bagagliaio. Si intravede una bombola di gas. Mi sembra di capire che sono esponenti di una fazione dei rivoltosi. Potrebbero essere parte della Mahdy Army. Si fermano nei paraggi a parlare con altri astanti. Le autobombe, a Baghdad, sono frequenti. Scoppiano quasi ogni giorno e causano decine di morti.


In passato, vi fu anche un noto attacco al Checkpoint 3. Una macchina carica di esplosivo si lanciò contro la postazione dell’esercito iracheno che costituisce il primo sbarramento di controllo per l’ingresso. Vi furono molte vittime. L’esplosione fu filmata anche dagli impianti di videosorveglianza.

I due uomini in nero ripartono. È chiaro che sono miliziani, impegnati a combattere l’occupazione occidentale. Come sempre, il colore bianco della mia pelle, i capelli chiari, e il look europeo attraggono molte attenzioni verso di me, in ogni Stato islamico che raggiungo. Ma sono anche italiano: di conseguenza riesco sempre ad attraversare ogni difficoltà, sono tagliente come un coltello e non sono visto così male come gli statunitensi. Torno in camera. Mi corico tranquillo.

La mattina dopo, devo cambiare hotel. Il Babylon non ha più posti. Inizio però la giornata recandomi al Media Centre. La procedura è sempre la stessa: taxi fino al Checkpoint 3, percorso con i controlli di sicurezza ed ingresso nella stanza del seminterrato. Sento il rumore di un jet americano, che sta percorrendo i cieli dell'Iraq. Potrebbe essere un F16. La giornata è uggiosa. Un po' di pioggia fa bene alla polvere e all'aridità irachene. Lo stesso jet potrebbe bombardare le postazioni degli insorti, oppure disperdere qualche sostanza chimica per far piovere. Colgo l’occasione per iniziare a trascrivere degli articoli, che archivio su una chiavetta Usb. Normalmente, prendo appunti e scrivo i testi su fogli di carta quando riesco a trovare un po’ di tempo. 

I computer del Media Centre sono veramente scarsi. Anche la linea internet non è veloce, ma riesco comunque a individuare una sistemazione sostitutiva per la notte. L’Hotel Sheraton dovrebbe andare bene. Finisco di sottoscrivere la modulistica per l’embedding con l’esercito statunitense. Mi occorreranno poi alcuni documenti da presentare, tra cui la lettera di incarico della testata giornalistica. Decido di chiederla a Franco Londei, direttore di Secondo Protocollo, un sito web che ha già ospitato dei miei articoli e con cui vado d’accordo. Poi decido di uscire. È già tardi. Il sole sta per tramontare.

All’esterno della Green Zone, è in corso una battaglia. I rivoltosi stanno attaccando. C’è un humvee dell’esercito iracheno piazzato in mezzo alla strada. Il soldato sulla torretta manovra un mitragliatore, decisamente più grosso e più potente anche degli M16 in dotazione agli americani e all’esercito italiano, che mi ricordo bene dallo scorso anno, quando ero stato aggregato ai nostri militari di stanza a Kabul, in Afghanistan. Gli altri soldati iracheni hanno improvvisato una barriera e hanno bloccato la via. Hanno i fucili spianati.

Si sente un colpo di cannone provenire dalla parte opposta della strada. Si vede del fumo. Proseguo a camminare sul marciapiede. Dal primo piano di una delle abitazioni sopra le botteghe, esce un uomo e spara un colpo di revolver. Vedo bene il braccio teso e l’arma. In fondo alla strada, si nota una certa confusione e si sentono ancora altre esplosioni di proiettili. Poi la situazione cambia. Gli insorti si ritirano. Continuo a camminare in quella direzione, ma l’attacco è finito. Oltrepasso la zona degli scontri. Le auto riprendono a circolare. Inizia a diventare buio.

Fermo una macchina. Chiedo all’autista di portarmi allo Sheraton. Quando arrivo, la hall dell’albergo è quasi deserta. Contratto il prezzo di una camera per due notti. Ho a disposizione degli euro e devo contrattare anche il cambio con gli addetti alla reception. Si dimostrano abbastanza onesti e non esagerano con la conversione della valuta in dollari. Porto lo zaino in camera. Dalle finestre, si vede ancora il Tigri.

Scendo al piano del bar. Ordino qualcosa da bere e mi siedo ad un tavolo. Ci sono altri avventori. Sento parlare una famiglia. Questi sono i signori arabi. Si comportano come la buona società italiana, o il club degli europei. Parlano inframezzando qualche parola in italiano e in inglese nei loro discorsi, rivolgendosi a me indirettamente. Hanno la stessa clean mind, la stessa mente pulita che mi ricordo di aver notato in Afghanistan. Finisco così la serata.

Quando mi risveglio, faccio una piccola colazione. Poi chiedo se l’albergo ha un pc a disposizione, ma l’inserviente mi suggerisce di provare a domandare all’hotel di fronte. Entrambe le strutture ricettive sarebbero state in seguito oggetto di un attentato in grado di causare numerosi morti. Attraverso il cortile ed entro nell’altro hotel. Effettivamente, hanno la possibilità di farmi lavorare un po’ al computer, collegato ad internet. Colgo l’opportunità di trascrivere un articolo e di mettere in linea alcuni testi. A volte, occorre saper sfruttare bene l’arte di arrangiarsi.

Lascio qualche dollaro al portiere, cerco un passaggio in auto e torno al Checkpoint 3, al Media Centre. Devo superare l’identificazione per essere aggregato alla Us Army, quando riceverò l’accettazione. Raggiungo una saletta posta nei cunicoli del seminterrato, a fianco dei container delle ambasciate e vengo sottoposto ad una serie di procedure: fotografie, di fronte e di lato, firma, e rilevazione delle impronte digitali di pollice e indice, con la scansione ad infrarossi. Guardo i soldati della Us Army impegnati a sollevare pesi e bilancieri nella zona in cui vi sono alcune attrezzature da palestra. Hanno le braccia coperte da tatuaggi.


Decido di fare ancora un giro per Baghdad. Mi faccio portare da un’auto nei pressi di Sadr City. A un certo punto, dico all’autista di fermarsi e rimango a piedi. C’è un cimitero. Anche questo sarà stato riempito dalla guerra. È sempre così. Vedo un campo da calcio. Ci sono dei ragazzini che giocano. Il fondo è sterrato, delimitato da reti arrugginite. Le porte non hanno le reti. Continuo la mia camminata, ma ad un certo punto vedo sul mio marciapiede degli oggetti strani di metallo. Potrebbero essere mine antiuomo, disperse. Nelle zone di guerra, è molto comune utilizzare le mine antiuomo, però poi i feriti non si contano… (mi ricordo di averle trovate in Cambogia, Bosnia, Libano, Afghanistan, n.d.r.).

Sta scendendo l’oscurità. Riprendo un altro passaggio. Chiedo di essere portato allo Sheraton. L’autista mi fa scendere poco distante. Devo attraversare una strada a doppia corsia e là in fondo dovrebbe esserci l’hotel. Indosso solo un maglione di cotone, jeans e maglietta. I due sensi di marcia sono divisi da blocchi di cemento e filo spinato, oltrepassando il quale riesco a far impigliare il maglione nelle spine di ferro, rovinandolo, ovviamente. Tutte queste misure di sicurezza, dai checkpoints, ai muri di cemento, al filo spinato, sono la norma nelle strade di Baghdad. La gente ormai ci ha fatto l’abitudine. Raggiungo la mia camera. Inizio a dormire. Secondo i miei programmi, domani dovrei raggiungere Osirak e poi riprendere l’aereo per Beirut. Preparo la mia attrezzatura. Collego le batterie alla corrente e cerco di dormire un po’.


Mi alzo verso le 4 del mattino. Mi è stato detto di non andare a Osirak, ma mi ritengo troppo abile per sottomettermi ai diktat. Fumo qualche sigaretta guardando le luci della città. Nel buio, si eleva il canto del muezzin per la prima preghiera, che loda Allah. Adoro i canti dei muezzin: mi hanno fatto sempre compagnia, durante le avventure negli Stati islamici. Decido di andare a Osirak nonostante ogni difficoltà. Aspetto il momento opportuno, verso le 8, per prendere un taxi. L’autista capisce subito la destinazione. Iniziamo ad attraversare il traffico di Baghdad. Superiamo senza problemi un paio di checkpoints, raggiungendo la periferia, dove le strade sono ancora più sconnesse.

A un certo punto, vedo una base militare statunitense. Leggo la scritta sull’entrata: Camp Marlboro. Siamo vicinissimi al centro atomico di Al-Tuwaitha. Penso che i soldati americani di stanza nella base non siano stati molto fortunati: la zona è probabilmente soggetta alla dispersione di molteplici radiazioni nucleari. Il terrapieno che delimita il sito al centro di cui ci sono i resti del reattore di Osirak appare all’improvviso a lato della via. Dall’altra parte della carreggiata, ci sono dei siti secondari, comunque destinati allo sviluppo di armi atomiche. Il programma di Saddam prevedeva che il centro di Al-Tuwaitha e le immediate vicinanze fossero rivolte a ricerca atomica, separazione del plutonio, trattamento degli scarti radioattivi, metallurgia dell’uranio, preparazione delle testate, sviluppo degli inneschi di neutroni, arricchimento dell’uranio.

Lascio che l’autista prosegui e raggiungiamo poco dopo un punto di notevole interesse: a fianco della strada, ci sono dei grossi coperchi rotondi, di acciaio, che chiudono ermeticamente dei cilindri scavati nel suolo. Potrebbe essere un sito di stoccaggio di scorie radioattive, o di isotopi dell’uranio (probabilmente U3O8), posto subito dopo il reattore. Percorriamo ancora una breve distanza, poi dico al tassista di tornare al sito. Quando arriviamo di nuovo ad Al-Tuwaitha, prendo il telefono, accendo la videocamera ed inizio a filmare, appoggiando il cellulare al bordo del finestrino per avere la massima stabilità. Registro le immagini del terrapieno e del cancello di entrata. L’intera area non ha particolari controlli di sorveglianza e non si denotano attività rilevanti, nonostante il consueto caos che contraddistingue ogni parte della capitale irachena. 


Il rientro verso l’hotel è altrettanto agevole: raggiungo la struttura superando anche alcuni checkpoints delle forze di sicurezza irachene. Eseguo il check-out alla reception. Esco. Chiedo a un tassista quanto vuole per portarmi all’aeroporto. Pretende 100 dollari. Sono troppi, riducono le mie capacità finanziarie notevolmente. Devo ancora alloggiare a Beirut in attesa del volo di ritorno verso l’Italia. Non c’è nulla da fare. L’autista è inflessibile. Devo accettare le condizioni. Carico il bagaglio e mi siedo sul sedile posteriore. La giornata è nuvolosa, uggiosa. Iniziamo il lento tragitto verso lo scalo, che dista qualche chilometro dal centro. C’è più confusione del solito. A breve distanza dalla nostra destinazione, un checkpoint ferma tutte le vetture. Non si può proseguire. Il tassista mi fa scendere. Lo pago e ritiro il mio zaino. Ci sono solo alcune macchine che possono passare. Riesco a parlare con uno dei guidatori. Accetta di darmi un passaggio fino alle partenze.

Quando arrivo, la zona è immersa in una coltre mista di fuliggine e umidità. Cerco sul tabellone il gate dell’aereo per Beirut. Il volo è stato cancellato. Chiedo al banco delle informazioni una spiegazione. Tutti gli aerei in partenza da Baghdad oggi sono stati sospesi a causa della nebbia. Potrebbero partire nei prossimi giorni. Ok. Adesso devo ballare. Ho pochi soldi in tasca, circa 200 dollari e sono senza un posto per dormire. Devo rientrare in città. Riesco a trovare un passaggio grazie alla disponibilità di un iracheno. Gli chiedo di portarmi al Checkpoint 3 della Green Zone. Raggiungo di nuovo il Media Centre. Il sergente americano è disponibile ad ospitarmi lì per la notte.

Il problema, adesso, è raggiungere l’aeroporto l’indomani. Cerco il numero di telefono di riferimento dell’Ambasciata d’Italia in Iraq. Riesco a parlare con un responsabile. Fisicamente, loro sono stati trasferiti in Kuwait, non possono erogarmi un prestito diplomatico di denaro, ma potrebbero inviare una macchina per portarmi al servizio di collegamento tra Baghdad e l’aeroporto. Insisto per ottenere questa cortesia. È meglio che non spenda altri soldi. Il responsabile dell’ambasciata si dimostra oltremodo gentile e mi accorda il favore. Devo però procurarmi un giubbotto antiproiettile e un elmetto, siccome il trasferimento avviene tramite le linee militari della Us Army e il protocollo di comportamento è rigido. Chiedo al mio collegamento diplomatico che possano essermi forniti da loro. Rimandiamo ad una telefonata seguente l’approvazione della domanda.



Decido di uscire ancora dalla Green Zone. Lascio i bagagli nel Media Centre. Vago per i negozietti della strada prospicente. Raggiungo in fondo alla via un esercizio di ristorazione. Predo qualcosa al bar. Memore dell’esperienza di Teheran, devo però cercare di confermare il volo e capire quando potrà essere di nuovo operativo. Mi faccio portare da un taxi all’agenzia della compagnia, posta a poca distanza. Un’addetta della biglietteria mi dice che l’aereo potrebbe partire due giorni dopo, se le condizioni meteorologiche lo permetteranno. Blocco il mio posto. Ripendo a camminare per le strade. Ormai si è fatto scuro e non so bene dove mi trovo, ho perso più o meno l’orientamento. Fermo ancora una macchina. L’autista e il suo compagno sembrano più disgraziati del solito, ma non mi faccio problemi. È buio. Baghdad offre il solito scenario. C’è la guerra. È uno spettacolo.

Quando rientro nel Media Centre, riesco a ricontattare il responsabile dell’ambasciata. È tutto a posto. Mi forniranno giubbotto ed elmetto. L’indomani, una macchina verrà a prelevarmi. Il sergente mi conferma che la mia pratica di embedding potrà essere sottoposta ad approvazione. Arriva anche la cena, fornita tramite vassoi di polistirolo, all’interno dei quali ci sono le vivande. Sono alcuni giorni che non mangio altro se non una fugace colazione e qualche pacchetto di patatine. Apprezzo la cucina degli americani. È abbondante e il cibo è buono. Lavoro un po’ in internet e poi mi sdraio sulla branda che mi hanno assegnato. Prendo subito sonno.

La mattina dopo, una giovane e attraente soldatessa statunitense si presenta con la colazione: caffè e muffin. Non poteva andarmi meglio. Preparo tutto per il trasferimento. Attendo gli operatori italiani. Quando arrivano, noto subito che si tratta di due Carabinieri in servizio a Baghdad. Raggiungiamo la macchina. È una Land Rover. Mi accomodo a fianco dei due mitragliatori M16 che hanno in dotazione. Partiamo. Non scambiamo molte parole. Mi conducono alla base di partenza del Rhino che mi porterà all’aeroporto.

Il Rhino è un veicolo volto a trasportare persone. Attendo alla stazione un po’ di tempo. Oltre a me, ci sono circa 20 persone che devono raggiungere lo scalo. Si tratta perlopiù di agenti, spie o militari alleati. Ho in tasca il foglio di imbarco con i miei dati. Saliamo a bordo e inizia il trasferimento. Attraversiamo quartieri di Baghdad che ho già intravisto. Il mezzo è lento e rumoroso. Arriviamo nella zona dell’aeroporto. Mi dicono di scendere davanti ad un capannone che ospita una base di appoggio.

Entro e mi posiziono comodamente su una delle poltrone. Guardo il bancone degli alimenti. Ci sono delle grosse buste. Ne apro una. È curiosa. Contiene dei fiammiferi, dei sacchi di plastica, altra oggettistica minore per la sopravvivenza e un po’ di cibo, tra cui dei noodles e una tavoletta di cioccolato. Cerco qualcosa da bere. Recupero anche una tazza di caffè. Trascorro la notte cercando di dormire un po’, coricato scomodamente e alzandomi sovente per fumare delle sigarette fuori dal fabbricato. Talvolta, arrivano dei militari statunitensi, destinati a raggiungere altre basi.

Con le prime luci della mattina, l’attività riprende ad un ritmo più elevato. Chiedo ad un addetto come posso fare per arrivare allo scalo. Mi indica la fermata di un autobus. Attendo mezz’ora e il mezzo, color bianco, antiquato, sopraggiunge. La giornata è tersa, si vede il cielo limpido, l’aria è frizzante. Il volo è confermato. Mi reco al primo piano, dopo le ordinarie procedure di check-in per l’imbarco. Guardo dalla finestra il panorama che si staglia oltre gli allestimenti aeroportuali. Improvvisamente, giungono i rumori di alcune esplosioni. Un altro attacco. Gli ordigni scoppiano a breve distanza. Baghdad, ci rivediamo presto.

Attendo un paio d’ore prima di poter partire con il solito jet. Filmo dal finestrino le regioni irachene sottostanti. Riesco a individuare Falluja, alcuni siti sospetti e Haditha. Poi il velivolo entra in Siria. Guardo il deserto, rosso e inospitale, che d’estate può diventare invivibile, con temperature superiori a 40 gradi. Fotografo un sito di interesse, a Palmyra, nei pressi di cui esiste un’importante miniera di fosfato, le cui rocce contengono delle parti di uranio, per cui l’impianto è volto ad estrarre fosfato di uranio, a sua volta raffinabile per ottenere degli isotopi radioattivi idonei alla fissione.



25.02.2025

Alessandro Ceresa

Frammenti di guerra: il sito di Der Al-Hadjar a Damasco

Baghdad, gennaio 2009. Riuniti nel centro messo a disposizione della stampa dall’esercito americano, ci interroghiamo in merito alle coordinate geografiche del sito atomico di Der Al-Hadjar, in Siria. I giornalisti statunitensi e i soldati della Us Army si dimostrano interessati alla posizione esatta della struttura, che risulta essere posta vicino a Damasco, ma non riescono a trovare esattamente latitudine e longitudine. Spiego al tenente responsabile del centro che mi sarei occupato io della sua individuazione, quando, al termine dell’embedding, il mio programma avrebbe comportato un break a Beirut, scalo da me prediletto per i voli tra Europa e Medio Oriente.

Finito il periodo di affiancamento all’esercito americano in Iraq, raggiungo la capitale libanese. Il volo per Roma sarebbe partito solamente il giorno dopo, alle 22. Trascorro il pomeriggio e la sera camminando nelle vie di Beirut. Quando viene buio, salgo verso il promontorio della Rouche, tristemente noto per le esecuzioni, e nel bar posto in cima alla scogliera gusto il tiepido clima della notte. Il giorno dopo, eseguo il check-out e chiedo di farmi venire a prendere da un taxi. Dico all’autista di portarmi a Damasco. Concordo il prezzo per andata e ritorno: 100 dollari. La macchina inizia il tragitto verso est, in direzione del confine siriano.

Scendendo verso la Valle di Beqa, noto che Israele sta conducendo dei bombardamenti nella zona. Si vedono le colonne di fumo degli ordigni. Passiamo a fianco di una garitta di un soldato libanese, che osserva dalla sua postazione le esplosioni nella vallata. L’aviazione di Tel Aviv ha mandato i propri jet nell’area di confine tra Libano e Siria. Proseguiamo il nostro itinerario. La strada attraversa le coltivazioni dell’altopiano di Beqa. A un certo punto, a una decina di metri dalla macchina, vedo una fiammata che incendia un albero: una bomba lo ha centrato. Quando il percorso asfaltato inizia a salire leggermente verso la frontiera, noto altre colonne di fumo che si ergono a margine della via. L’ingresso in Siria è agevole. Le autorità di confine appongono solo il timbro del visto sul passaporto.

In poco tempo, arriviamo a Damasco. Spiego all’autista che deve raggiungere Der Al-Hadjar. Lui chiede informazioni e si dirige verso l’aeroporto. Perlustriamo le vie adiacenti lo scalo. Inizio a filmare. Individuo il sito di smaltimento dei rifiuti radioattivi. 

Riprendo altri siti sospetti. Poi, finalmente, giungiamo al nostro obiettivo. Filmo tutto. Ci sono diversi fabbricati all’interno dell’area. I bombardamenti degli aerei israeliani continuano fino a qui. Vedo altre colonne di fumo. Cerco di orientarmi e di distinguere gli immobili più interessanti del sito atomico. 
Poco dopo, l’autista si ferma in una via della periferia di Damasco. Mi dice di aspettare. Scende e raggiunge un panificio. Accendo una sigaretta. Quando torna, mi offre un pezzo di pane, ma declino la proposta. Riprendiamo il tragitto. Attraversando le strade della città, vedo in cima ad un promontorio l’imponente costruzione di un palazzo esteso. Riprendo anche questo sito: si tratta di una struttura di sperimentazione atomica. 

I centri nucleari in Siria sono d'altronde molteplici. Nel mese di dicembre 2008, volando da Baghdad a Beirut, avevo individuato il sito di Palmyra, in mezzo al deserto rossastro, arido e invivibile. 

Torniamo in Libano. Mi faccio depositare dal taxi in aeroporto. Adoro volare di notte in zone di guerra. Eseguo il check-in e mi imbarco sul volo dell’Alitalia diretto a Roma. L’aereo riparte nonostante le tensioni che si percepivano durante la giornata. Oltre alle esplosioni che hanno colpito anche la città, gli addetti dell’aeroporto confermano che Israele ha rivolto un missile verso lo scalo. Si sente dire che i radar hanno rilevato altri jet di Tel Aviv. La potenza aerospaziale di Israele è indiscutibile e sovrasta le capacità offensive di Hezbollah, di Hamas, dell’esercito libanese e dell’Unifil.

Il mio aereo compie le dovute manovre per posizionarsi sulla linea di crociera. Tra le coste libanesi e Cipro inizia a scatenarsi una battaglia. Si sentono le prime esplosioni contro la carlinga. Sono proiettili di scarso potenziale, che non dovrebbero scalfire l’aereo, grazie alla calotta di protezione formata dall’aria compressa prodotta dal movimento e dalla velocità. Guardo il panorama dall’oblò. Vedo chiaramente le luci di un jet militare, che inquadra il boeing con l’obiettivo di un proprio missile. È un black angel di produzione sovietica. Si vedono le ali luminescenti e il viso del disegno che contraddistingue i mirini dei missili. Passa un secondo. Il pilota spara. Il volto dell’immagine si gira. Passa un altro secondo. Vedo arrivare un missile argentato, cilindrico, quasi irreale, indirizzato all’ala destra del velivolo. L’aria compressa del boeing lo respinge verso il basso. L’aereo si sposta  leggermente, per colpa dell’onda d’urto del missile.

Questo fatto conferma la realtà dell’attacco. Forse l’ordigno non era innescato e non è esploso. Oppure, la calotta di protezione è riuscita a respingerlo. Oppure, era solo dimostrativo, non detonante. Gli arabi a bordo fanno dei commenti. Vedo il jet che ci ha sparato. Le luci di posizione lampeggiano nel buio della notte, in mezzo al firmamento. Il pilota lancia un segnale con il laser, tratteggiando la scritta Mig, in rosso, sul lato dell’aereo. Mi chiedo se si tratta davvero di un aereo di produzione russa e a quale esercito appartiene. Vedo il jet allontanarsi nello spazio. Il comandante del boeing ha una visuale migliore della battaglia che si è scatenata nei cieli a ovest del Libano e decide di aprirsi la strada sparando, siccome l’Alitalia dispone anche di aerei armati. Lancia un missile. L’ordigno è racchiuso in una delle scatole grigie trapezoidali poste sotto le ali, di cui si apre il coperchio posteriore. Il missile cilindrico esce dal proprio involucro, arretra e si abbassa per effetto della velocità, lanciandosi nell’atmosfera con una fiammata. Raggiungerà qualche zona indistinta del Mediterraneo centrale. Ho l’impressione di vivere in un film. Decido di dormire, comodamente disteso sul sedile. La battaglia dovrebbe essere finita.



29.12.2024

Alessandro Ceresa

Storie di mafia: quei soldi che devono rientrare

La ‘Ndrangheta è spesso raffigurata dall’immagine di un albero, i cui affiliati costituiscono le foglie, ovvero la società. Se pensiamo all’enorme giro di affari delle mafie e alla diffusione dei traffici illeciti, riusciamo a capire come gli affiliati siano milioni e comprendiamo di conseguenza l’estensione della consorteria. Allo stesso tempo, la ‘Ndrangheta è spesso menzionata per il consistente patrimonio, che la rende la mafia più ricca. Tutti gli investimenti dei relativi capitali, però, raggiungono solo in minima parte la Calabria, in quanto la fetta più grossa è investita in altre regioni e persino al di fuori dell’Italia. A Pavia e nei dintorni di Milano, ad esempio, malfattori, malavitosi, truffatori e personaggi poco chiari sono di regola pronti a dichiararsi contigui alla ‘Ndrangheta, entrando nel novero delle “foglie”, al fine di potersi accaparrare i suoi capitali. Semplicemente: si affiliano alle ‘ndrine e alle locali, per prendere i soldi dei calabresi. Mi vengono in mente immobiliaristi, agenzie, costruttori e altre società della zona, che beneficiano del patrimonio fornito dalla ‘Ndrangheta. Fino a quando potranno farlo? I calabresi stessi dicono che i soldi di questi investimenti devono tornare in Calabria…



Frammenti di guerra: da Nassiriya a Najaf

Iraq, ottobre 2010. La stazione dei treni di Nassiriya è quasi deserta. Sono le 9 di sera. Il sole è già tramontato e ha lasciato spazio all’oscurità. Flebili luci illuminano scarsamente le banchine e i binari. Riesco a individuare la biglietteria. Il ferroviere mi rilascia un tagliando di carta molto leggera, in cambio di pochissimi dollari, pari forse a 3 o 4 euro. È il biglietto per Al-Diwaniyya, la mia prossima tappa intermedia. Da lì, dovrò raggiungere Najaf. Ho studiato bene le mappe. Sono arrivato a Nassiriya ieri pomeriggio, in auto, con il taxi che ho preso a Bassora assieme ad alcuni iracheni che avevano il mio stesso itinerario.

Abbiamo attraversato il deserto, costellato di impianti petroliferi. Sono riuscito a fotografare le fiamme del gas naturale che fuoriesce dalle loro estremità, sprecando idrocarburi, così come accade a causa delle perdite di petrolio degli oleodotti che percorrono tutto l’Iraq. Il viaggio non ha comportato problemi, anche se siamo stati fermati spesso ai checkpoints dislocati lungo il percorso. Nei pressi della città, prima del ponte sull’Eufrate, il grande fiume che attraversa l’abitato di Nassiriya, ho visto un sito interessante, probabilmente una raffineria o una centrale termoelettrica.

È la quarta volta che raggiungo l’Iraq. Conosco la guerra, conosco la gente, so come muovermi. Capisco però che sono un occidentale e che quindi sono considerato un nemico. In serata, ho trovato un hotel. Ho visto la città di notte, tra ristoranti e bar illuminati. Questa mattina, camminando nelle strade polverose di Nassiriya, ho raggiunto il luogo in cui, il 12 novembre 2003, un attentato alla base militare dei Carabinieri causò la morte di 19 uomini del contingente inviato in Iraq nell’ambito della missione Antica Babilonia, a supporto dell’invasione statunitense. Ho fotografato l’immobile, interamente ricostruito, che adesso ospita la Camera di Commercio irachena. Sono rimasto un minuto in silenzio, fermo, in segno di omaggio verso i nostri caduti. Il pensiero non è potuto che andare a loro. A fianco dello stabile, ho notato una garitta traforata da proiettili. Ho quindi trascorso il pomeriggio tra la camera dell’hotel e qualche passeggiata nelle vie adiacenti. Adesso riprendo il mio itinerario, che ho programmato da tempo: The Road to Baghdad, la strada per Baghdad. Voglio raggiungere via terra la capitale irachena, che peraltro conosco perfettamente. Ho scelto con cura le varie tappe.

Aspetto il treno fumando qualche sigaretta ai margini dei binari, controllando, come i viaggiatori di tutto il mondo, di essere sulla banchina giusta. Quando il convoglio arriva in stazione, chiedo conferma al capotreno e salgo a bordo. Mi siedo in una delle cabine. Non bado molto agli altri passeggeri. Il convoglio riparte verso nord e inizia a sfrecciare nel buio. Le carrozze oscillano vigorosamente. Le molle del treno sono molto elastiche. Ad ogni sobbalzo, ci si alza di 10 centimetri, per poi ricadere verso il basso. Guardo i vetri scheggiati dai proiettili vaganti. È l’Iraq. C’è la guerra. Fuori non si vede nulla. Il treno sfreccia nell’oscurità della notte. Parlo con un ragazzo che si è seduto quasi di fronte a me. Riusciamo a capirci grazie a qualche frase in inglese. Mi regala un piccolo libricino. <<È il Corano>>, mi dice. Me lo consegna con cura e mi raccomanda di tenerlo. Ottengo dal controllore le indicazioni corrette in merito alla fermata di Al-Diwaniyya. Quando la raggiungiamo, verso le 2 di notte, scendo dalla carrozza e inizio ad osservare la piccola stazione di questo centro urbano posto in mezzo all’Iraq. Una serie di apparecchiature cilindriche emette un sibilo e attira la mia attenzione. Potrebbero essere turbine. Gli impianti di arricchimento dell’uranio hanno delle attrezzature simili, ma è strano che queste siano poste all’aria aperta. Le classifico come parte di un sito sospetto, la cui tecnologia dovrebbe essere approfondita, così come quella del fabbricato a fianco.

Seguo i viaggiatori che sono scesi con me. Percorriamo i lati della stazione e raggiungiamo, camminando, un piazzale, dove alcune auto stanno aspettando. Mi ricordano i taxi di Kabul, quando mi sono fatto condurre a Jalalabad. Sì: il sistema è analogo. Chiedo di essere portato a Najaf. Vengo indirizzato verso la macchina giusta. L’autista mi fa caricare lo zaino nel bagagliaio. Concordo il prezzo del viaggio. Ci sono tre giovani uomini, oltre a me, vestiti con i classici abiti bianchi e lunghi degli islamici. Il più alto, che sembra dirigere gli altri due, si siede sul sedile anteriore. Ha una barba nera, corta e incolta. Mi accomodo sul sedile posteriore, assieme agli altri compagni di viaggio. Partiamo.

La strada verso Najaf è agevole, senza curve particolari. Guardo il panorama che si può scorgere nel buio. Vedo parecchie abitazioni di pregevole realizzazione, poste al riparo di muri di cinta, illuminate da piccole lampade esterne. Rispetto all’Afghanistan, noto che l’Iraq dimostra sempre un livello di sviluppo maggiore, ma so che qui il vigore della guerra è nettamente superiore. Nell’ambito delle operazioni disposte dal Pentagono, l’Iraq presenta l’intensità di fuoco più elevata. Me lo ricordo perfettamente dal momento in cui sono stato aggregato alle truppe statunitensi. Eravamo sempre sotto il fuoco degli insorti. Qui c’è il massimo della jihad. Dormo un po’, appoggiando la testa al finestrino.

Dopo circa due ore arriviamo a Najaf. Il tassista segue le indicazioni degli altri viaggiatori, che vogliono farsi accompagnare alla propria abitazione. Seguiamo alcune stradine del centro urbano e ci fermiamo in un vicolo cieco, in mezzo ad alcune baracche costruite malamente. Scendiamo. Gli uomini prendono i loro scarsi bagagli. Improvvisamente, però, il loro capo, quello con la barba nera, estrae un revolver e fa girare il tamburo. Lo punta nella mia direzione e mi dice qualcosa. Vuole che li segua. Vogliono rapirmi. Siamo a 5 metri di distanza l’uno dall’altro.

…omissis…

La stampa di questo paragrafo è momentaneamente sospesa, per l’episodio di violenza che contiene: seguirà la versione integrale in futuro (n.d.a.)

…omissis…

I miei tre nemici si allontanano, rapidamente, infilandosi tra le casupole. Spariscono. L’autista mi dice di risalire in macchina. Non c’è più traccia dei miei aspiranti rapitori. Ripartiamo.

Vedo un chiosco illuminato ai margini di una strada. Dico al tassista di fermarsi. Scendo e recupero il mio zaino. Raggiungo il piccolo bar improvvisato con un carrello mobile ai margini di una strada. Sono circa le 4 di notte. Non c’è altro segno di vita in giro. Attorno alla baracca, c’è un gruppo di avventori. Compro un’aranciata e inizio a berla, fumando qualche sigaretta. Controllo che i soldi e i miei documenti siano al loro posto, nella tasca superiore della giacca. Devo aspettare che arrivi il giorno. Dall’altra parte della strada c’è un carro armato nero. Il busto di un militare iracheno sporge dalla torretta del blindato. Guardo il mitragliatore fissato sul mezzo. È più grande degli M16 e verosimilmente più potente. Il soldato porta sul braccio lo stemma delle Special Forces irachene, un gruppo d’élite dell’esercito. Riconosco il logo con il teschio che avevo già visto a Baghdad quasi due anni fa.

Nel 2003, la Battaglia di Najaf costituì uno dei principali episodi dell’invasione statunitense. L’anno seguente, la città fu teatro di un’ulteriore battaglia, che oppose l’esercito americano e i suoi nuovi alleati iracheni alla Mahdi Army del leader sciita Muqtada Al-Sadr. I combattimenti finirono quando le parti in causa raggiunsero l’accordo per una tregua, peraltro interrotta da sporadici momenti di fuoco nei mesi seguenti, ma Najaf restò un caposaldo per i guerriglieri di Al-Sadr durante l’insurrezione.

Alle prime luci dell’alba, il traffico della città inizia ad aumentare. Noi siamo abituati alle macchine nuove, o quasi nuove, con le carrozzerie perfette, che affollano le strade degli Stati occidentali. In Iraq, non ce ne sono. Le auto sono vecchie, scassate, rovinate. Vedo arrivare due antiquati autobus iraniani. Si fermano in uno spiazzo di fronte al chiosco. Penso che abbiano raggiunto l’Iraq a fatica e mi sembra strano che degli iraniani possano percorrere tutti questi chilometri per arrivare in una città irachena, visto il conflitto tra i due Stati che si consumò dal 1980 al 1988 e che comportò il protrarsi di ostilità reciproche. Najaf, però, è un luogo sacro per l’Islam e in particolare per gli Sciiti, siccome è sede del più grande cimitero del mondo. I pellegrini scendono dai bus. Le donne sono vestite di nero e hanno il capo coperto. Gli uomini sono abbigliati poveramente.

Verso le 7, riesco a farmi notare da un tassista. Gli chiedo di portarmi in un albergo. Guardo dal finestrino la città. Le tombe si perdono a vista d’occhio, nel panorama delle distese di terra arida e rossastra. Il centro urbano ospita un immenso cimitero, effettivamente. Percepisco l’odore dolciastro della morte, dei cadaveri in decomposizione, che pervade l’intero ambiente. L’autista si ferma davanti ad un piccolo hotel. Pago, scendo ed entro nella reception. Le impiegate hanno una carnagione biancastra, insalubre. Noto dei disegni sulle mani. Penso che possano riferirsi a qualche rito celebrativo, o funebre, che possa anche comportare dei salassi di sangue. Mi dicono che hanno una camera a disposizione. Il prezzo è sostenibile. Prendo i miei bagagli e mi dirigo al secondo piano. La camera è pulita e confortevole. Sono stanco. Sono sveglio da circa 24 ore. Mi sdraio sul letto e crollo addormentato.

Quando mi alzo è già pomeriggio inoltrato. Accendo la telecamera e inizio a filmare e a fotografare il paesaggio che vedo dalle finestre. Oltre al cimitero, noto una fornace, ancora attiva, con un movimento di persone. Riprendo tutto. Poi decido di uscire: devo recuperare delle sigarette, delle cicche, qualcosa da bere e da mangiare. Lascio l’hotel e inizio a camminare. La sabbia del deserto sporca l’asfalto. Attorno a me, vedo solo caseggiati color argilla e tombe. C’è qualche passante, ma gli arabi, vestiti con tuniche e calzati di sandali, dovrebbero essere in numero estremamente superiore per avere la meglio di un occidentale. Raggiungo un negozietto posto alle pendici di un piccolo rilievo, in cima al quale c’è una fortezza, oppure un edificio sacro. Riesco a trovare tutto quello che cercavo. Faccio un buon rifornimento dei generi per me indispensabili, tra cui non rientra il cibo. Mi accontento di mangiare solo cose confezionate: non mi fido e non mi sono mai fidato della cucina degli iracheni. Torno in albergo per risposare ancora un po’. La sera, faccio ancora una camminata in città. Poi vado a dormire presto.

Mi risveglio la mattina, per fare colazione. Eseguo il check-out verso le 11. Prendo il mio zaino ed esco. Fermo un taxi. Gli chiedo se può portarmi prima alla casa di Al-Sadr e se dopo può condurmi fino a Baghdad. Contrattiamo il prezzo. Ci accordiamo per 100 dollari. Salgo e partiamo. L’abitazione del leader sciita è posta nelle vicinanze. Quando arriviamo, l’autista mi spiega che quella è esattamente la sua residenza. Scendo e faccio delle fotografie al cancello d’ingresso. L’immobile non è sfarzoso, non è grande, ma è ben tenuto. Il tassista cerca di farsi aprire. Suona il campanello. Non risponde nessuno. Aspettiamo alcuni minuti per vedere se può arrivare qualche inquilino, ma non si muove nulla.

Riprendiamo il nostro viaggio. Destinazione Baghdad. L’auto si immette nelle principali vie di comunicazione, fino a raggiungere una specie di autostrada. I primi checkpoints mi ricordano che siamo sempre in guerra, all’interno di una rete di controlli militari. Quando i soldati mi perquisiscono, verificano i documenti, ma non ho problemi a superare ogni ispezione. Il tassista guida velocemente. La radio trasmette della musica araba, che apprezzo sempre. Guardo l’orizzonte. Ci sono ancora giacimenti di idrocarburi. Il petrolio, le granate, i missili, i proiettili, gli eserciti, i blindati, i carri armati, gli elicotteri Apache, Black Hawk e Chinook, gli spari, le esplosioni, gli aerei C-130 Hercules, i jet F16, le autobombe, le stragi, il filo spinato, le protezioni in cemento armato, le basi militari, l’asfalto bruciato dagli attentati, le mine antiuomo, la guerriglia, gli insorti, i bombardamenti, le macerie, la distruzione, gli scontri a fuoco, le fosse comuni, i morti e i feriti. Questa è la guerra: benvenuti all’inferno.

04.11.2024

Alessandro Ceresa

War Criminals

Edizione gratuita, pronta per il download, di una selezione dei principali documenti che riguardarono alcuni dei Criminali di Guerra accusati dall'Icty al termine delle guerre nell'ex-Jugoslavia.

https://drive.google.com/file/d/1Oj8ErzXzEHykNR1iBnclgS2X0OqmpOtv/view?usp=sharing 




Storie di mafia: i soldi degli oligarchi

Svizzera, 2024. Voi pensate che i soldi degli oligarchi russi siano custoditi solo nelle banche russe? Io no. Raggiungo la vicina ed evoluta Svizzera e ottengo alcune informazioni riguardanti l'intreccio di movimenti finanziari che iniziarono ad essere contestati durante l'era di Eltsin. La morte di Berezowsky fu un altro episodio importante. Raccolgo il materiale che mi attendevo e trovo anche la sede della Mabetex di Pacolli, il big boss della mafia albanese. Prendo un aperitivo in un locale in riva al lago di Lugano. Ascolto i commenti degli avventori e dei baristi. Prima di ripercorrere la storia alla base del potere degli oligarchi, riepilogo i punti più importanti che sono riuscito ad apprendere.

Boris Berezowsky, deceduto a Sunninghill, in Gran Bretagna, nel 2013, fu trovato impiccato nella stanza da bagno della residenza che aveva in uso. Alcuni elementi destarono evidentemente dei sospetti negli investigatori, come la porta chiusa a chiave. Il caso rimase ufficialmente aperto. Sulla sua testa, d’altra parte, pendeva una condanna a morte dopo gli attentati che sconvolsero la Russia nel 1999, che comportarono oltre 100 vittime e che giunsero nel momento in cui la tensione per le imminenti elezioni presidenziali del 2000 era particolarmente alta. Fonti non ufficiali, d’altra parte, avevano sottolineato come alcuni esponenti della nomenklatura interna al Cremlino stessero effettivamente pensando a delle azioni terroristiche in grado di condizionare le votazioni.

Berezowsky era una delle “intelligenze nere” dell’entourage di Eltsin, che in quel periodo era stato anche scosso dall’inchiesta svizzera riguardante la corruzione esistente ai massimi livelli del Cremlino, condotta dal magistrato elvetico Carla Del Ponte e dal procuratore generale russo Yuri Skuratov. Lo scandalo aveva messo in luce un reticolo di corruzione, tangenti e fondi esteri, capaci di coinvolgere la stessa “semya” (la “famiglia” di Eltsin). Gli attentati non ebbero una spiegazione definitiva. Fu indicata ovviamente una traccia cecena, dovuta alla guerra nella regione caucasica, ma altri elementi correlati ne misero in dubbio l’univocità. Per questi motivi, si afferma oggi, con ragionevole cognizione di causa, che Berezowsky fu ucciso dall’ex-Kgb, nonostante il magnate soffrisse anche di depressione, patologia atta a condurre a gesti estremi da parte di chi ne è affetto. Il medico legale non riuscì a giungere a una diagnosi definitiva ed erano stati registrati in precedenza anche altri tentativi di ucciderlo.

D’altra parte, l’inchiesta svizzera aveva evidenziato come gli oligarchi e i personaggi vicini alla presidenza russa utilizzassero le casseforti delle banche elvetiche per nascondere grandi capitali, proprio come oggi viene tuttora sottolineato nella ricca Lugano, confermando che la Svizzera, al pari delle Isole Cayman, di Panama e di altri paradisi fiscali, sia ancora al centro degli interessi finanziari dei ricchi esponenti russi, così come per altri traffici di denaro di organizzazioni criminali che spaziano dalla mafia italiana al Cartello di Medellin. In questo contesto, vedere il palazzo della Mabetex di Pacolli all’entrata della città lascia perplessi, ma conferma tutto.

Uomo d’affari abile e spregiudicato, Behgjet Pacolli è nato in Kosovo, a Pristina, ha origini etniche albanesi e ha ottenuto la cittadinanza svizzera. Negli anni ’90, i suoi rapporti con il Cremlino compresero la ristrutturazione dell’intero complesso, della Duma e della Casa Bianca, la sede del Governo a Mosca, nell’ambito di una commessa che arrivò quasi a un miliardo di Euro. Nonostante il core business della Mabetex rimanga il settore edile, il gruppo è attivo in altri ambiti di attività, che comprendono anche i media e le assicurazioni. Fu riportato, durante l’era di Eltsin, l’arresto di un funzionario del Cremlino che usciva dalla sede presidenziale con una valigia piena di contanti, provenienti proprio dal giro d’affari di Pacolli, che poteva contare all’interno del clan di Eltsin della conoscenza stretta con Pavel Borodin e con la figlia del Presidente, Tatiana, peraltro accusata nello stesso periodo di essersi accaparrata ingenti risorse elargite generosamente alla Russia dal Fondo Monetario Internazionale, nell’ambito della politica di sostegno al cambiamento che succedette al crollo dell’impero sovietico.

Pacolli, d’altra parte, non ha solo nel business la propria ragione di essere: fu nominato anche Presidente del Kosovo, a favore della cui indipendenza si adoperò tramite una consistente azione di lobby, e raccoglie persino un ampio consenso tramite le opere di filantropia. Le banche svizzere, però, nascondono tanti altri segreti. Il riciclaggio di denaro, proveniente anche dalle mafie italiane, è estremamente diffuso, in virtù della politica bancaria elvetica. A Lugano, l’immissione di grandi capitali ha comportato un innalzamento dei prezzi degli immobili a livelli notevoli, a fronte, d’altra parte, di limitate attività produttive. È frequente vedere macchine di grossa cilindrata riportanti targhe albanesi che attraversano la dogana a Chiasso, ridente cittadella di frontiera che confina con l’adiacente area del comasco. Tuttavia, il riciclaggio dispone oggi di strumenti digitali tramite i quali operare per mezzo di brokers internazionali, che rendono difficile il controllo delle movimentazioni finanziarie, nonostante la limitata affidabilità delle piattaforme.

La mafia russa è una grande organizzazione criminale, attiva in tutto il mondo, che aveva proprio in Berezowsky la propria figura di riferimento. Durante l’esistenza dell’Unione Sovietica, i boss costruirono le proprie fortune grazie al mercato nero e riuscirono ad impadronirsi di numerose proprietà statali collaborando con la nomenklatura dopo il crollo del regime. Presenti soprattutto nell’Europa dell’Est, finanzieri russi legati alla mafia comprarono nel 1996 il provider bulgaro dei Gsm, la Mobiltel. La società divenne nel 1997 un obiettivo dell’italiana Stet, controllata da Telecom Italia, che rinunciò alle trattative solo per rivolgere i propri interessi al  noto accordo miliardario relativo all’acquisto di una quota della Telekom serba. 

Gli oligarchi iniziarono ad operare già durante l'ultimo periodo della presidenza di Gorbaciov, nel momento in cui riuscirono ad affermarsi come imprenditori grazie ad una prima liberalizzazione di mercato. Le loro fortune esplosero durante l'era di Eltsin, nella decade degli anni '90, grazie alle privatizzazioni delle grandi compagnie statali, condotte spesso in modo inopportuno e discriminatorio, che permisero a pochi esponenti vicini al potere politico di accaparrarsi la proprietà e il controllo dei grandi complessi statali operanti nei diversi settori industriali. Nel 1996, i nuovi ricchi finanziarono la rielezione di Eltsin e poterono beneficiare di un nuovo metodo di distribuzione, a loro favore, delle partecipazioni nelle maggiori compagnie (lo schema denominato "loan for shares" prevedeva l'erogazione di prestiti in cambio di azioni, stimate ad un valore infinitesimo rispetto al loro valore reale). In precedenza, il cosiddetto "programma dei voucher", che ambì ad una prima privatizzazione, aveva permesso la concentrazione nelle mani di pochi individui di estreme quantità di ricchezza. In breve tempo, le grandi compagnie statali diventarono di loro dominio. Tra i maggiori oligarchi del tempo si possono nominare Roman Abramovich, Boris Berezovsky, Vladimir Gusinsky, Mikhail Khodorkovsky, Vladimir Potanin, Alexander Smolensky and Vladimir Vinogradov. Tra le compagnie riconducibili a Berezovsky vi furono Aeroflot, Sidanco, Yukos, Sibneft, Ort Television. 

L'ascesa al potere di Vladimir Putin cambiò qualche regola del gioco. Come ex agente dell'Fsb, Putin aveva probabilmente in animo di riformare questa situazione incredibile, in cui pochi eletti detenevano la maggior parte della ricchezza prodotta dalla Russia, mentre la popolazione faceva fatica a sostenere i prezzi inflazionati dei beni esposti nei supermercati. Mi ricordo chiaramente a Mosca, nel 2002, gli anziani che si allineavano sul marciapiede, nei pressi delle fermate della metropolitana, seduti per terra, con davanti a sé una cassetta di legno, che serviva per esporre la poca merce in vendita: frutta, verdura, fiori... Altri alimentari, oppure oggetti, erano offerti per pochi rubli dalle bancarelle o da venditori improvvisati. Mosca è la capitale di un grande impero, quello sovietico. Con 12.000.000 di abitanti si posiziona tra le città più popolose del mondo. Il contrasto tra ricchezza e povertà a volte è stridente. Negli ultimi 20 anni, ci sono stati parecchi cambiamenti e la modernità avanza in ogni contesto: dagli edifici, alle infrastrutture, ai trasporti. 

Nonostante il supporto che gli aveva inizialmente fornito, Berezowsky diventò un fermo oppositore di Putin, il quale iniziò a perseguire alcuni dei maggiori oligarchi, tra cui Khodorkovsky e Gusinsky. Costretto all'esilio, Berezowsky si scontrò anche con Abramovich e subì una pesante sconfitta in sede giudiziaria, che segnò inevitabilmente il suo declino. A Londra, raggiunsi la sede di una delle sue società, situata in un quartiere del centro. Non vi era alcuna attività lavorativa. Entrai dalla porta e mi trovai in una stanza con le pareti scure, in cui solo un'impiegata mi fornì i riferimenti di contatto aziendali. 

In Russia, il potere ultraventennale di Putin ha implicato molti cambiamenti, in ogni ambito di analisi (politico, economico, sociale, geopolitico). Nonostante, in maggior parte, gli esponenti di riferimento siano variati, il sistema rimane ancora lo stesso. Nuovi oligarchi hanno sostituito i precedenti. Le sanzioni imposte nei confronti di alcuni di loro da parte dell'Unione Europea, però, non hanno compreso una serie di nominativi che per le istituzioni occidentali potrebbe diventare scomodo importunare. Tra le figure più rappresentative di questo nuovo sistema di potere vi sono spesso dei rappresentanti di interessi riconducibili all'industria bellica. Così come le lobby statunitensi riescono a fomentare guerre e instabilità, allo stesso modo la presenza di commesse militari esorbitanti a favore di imprese operanti nel settore della difesa russo getta un'ombra addizionale sulla guerra in Ucraina. 

Ci sono alcuni nomi che appare opportuno menzionare, quindi, tra gli oligarchi che controllano grandi epicentri economici: Leonid Mikhelson, Gennady Timchenko (proprietari delle società Novatek e Sibur), Vagit Alekperov (proprietario del gigante del petrolio Lukoil), Vladimir Lisin (Novolipetsk Steel), Vladimir Potanin, Viktor Vekselberg, Iskandar Makhmudov, Andrei Bokarev, Vladimir Yevtushenkov, Aras Agalarov, Albert Avdolyan, Sergei Adonyev, God Nisanov, Aleksey Repik... Le loro connessioni con l'Europa, inoltre, sono frequenti. Per questo, ci si chiede se il segreto bancario svizzero sia così attrattivo anche per loro. In pratica: dove sono tutti i miliardi degli oligarchi russi, passati e presenti? 


Alessandro Ceresa

24.10.2024