Frammenti di guerra: da Nassiriya a Najaf

Iraq, ottobre 2010. La stazione dei treni di Nassiriya è quasi deserta. Sono le 9 di sera. Il sole è già tramontato e ha lasciato spazio all’oscurità. Flebili luci illuminano scarsamente le banchine e i binari. Riesco a individuare la biglietteria. Il ferroviere mi rilascia un tagliando di carta molto leggera, in cambio di pochissimi dollari, pari forse a 3 o 4 euro. È il biglietto per Al-Diwaniyya, la mia prossima tappa intermedia. Da lì, dovrò raggiungere Najaf. Ho studiato bene le mappe. Sono arrivato a Nassiriya ieri pomeriggio, in auto, con il taxi che ho preso a Bassora assieme ad alcuni iracheni che avevano il mio stesso itinerario.

Abbiamo attraversato il deserto, costellato di impianti petroliferi. Sono riuscito a fotografare le fiamme del gas naturale che fuoriesce dalle loro estremità, sprecando idrocarburi, così come accade a causa delle perdite di petrolio degli oleodotti che percorrono tutto l’Iraq. Il viaggio non ha comportato problemi, anche se siamo stati fermati spesso ai checkpoints dislocati lungo il percorso. Nei pressi della città, prima del ponte sull’Eufrate, il grande fiume che attraversa l’abitato di Nassiriya, ho visto un sito interessante, probabilmente una raffineria o una centrale termoelettrica.

È la quarta volta che raggiungo l’Iraq. Conosco la guerra, conosco la gente, so come muovermi. Capisco però che sono un occidentale e che quindi sono considerato un nemico. In serata, ho trovato un hotel. Ho visto la città di notte, tra ristoranti e bar illuminati. Questa mattina, camminando nelle strade polverose di Nassiriya, ho raggiunto il luogo in cui, il 12 novembre 2003, un attentato alla base militare dei Carabinieri causò la morte di 19 uomini del contingente inviato in Iraq nell’ambito della missione Antica Babilonia, a supporto dell’invasione statunitense. Ho fotografato l’immobile, interamente ricostruito, che adesso ospita la Camera di Commercio irachena. Sono rimasto un minuto in silenzio, fermo, in segno di omaggio verso i nostri caduti. Il pensiero non è potuto che andare a loro. A fianco dello stabile, ho notato una garitta traforata da proiettili. Ho quindi trascorso il pomeriggio tra la camera dell’hotel e qualche passeggiata nelle vie adiacenti. Adesso riprendo il mio itinerario, che ho programmato da tempo: The Road to Baghdad, la strada per Baghdad. Voglio raggiungere via terra la capitale irachena, che peraltro conosco perfettamente. Ho scelto con cura le varie tappe.

Aspetto il treno fumando qualche sigaretta ai margini dei binari, controllando, come i viaggiatori di tutto il mondo, di essere sulla banchina giusta. Quando il convoglio arriva in stazione, chiedo conferma al capotreno e salgo a bordo. Mi siedo in una delle cabine. Non bado molto agli altri passeggeri. Il convoglio riparte verso nord e inizia a sfrecciare nel buio. Le carrozze oscillano vigorosamente. Le molle del treno sono molto elastiche. Ad ogni sobbalzo, ci si alza di 10 centimetri, per poi ricadere verso il basso. Guardo i vetri scheggiati dai proiettili vaganti. È l’Iraq. C’è la guerra. Fuori non si vede nulla. Il treno sfreccia nell’oscurità della notte. Parlo con un ragazzo che si è seduto quasi di fronte a me. Riusciamo a capirci grazie a qualche frase in inglese. Mi regala un piccolo libricino. <<È il Corano>>, mi dice. Me lo consegna con cura e mi raccomanda di tenerlo. Ottengo dal controllore le indicazioni corrette in merito alla fermata di Al-Diwaniyya. Quando la raggiungiamo, verso le 2 di notte, scendo dalla carrozza e inizio ad osservare la piccola stazione di questo centro urbano posto in mezzo all’Iraq. Una serie di apparecchiature cilindriche emette un sibilo e attira la mia attenzione. Potrebbero essere turbine. Gli impianti di arricchimento dell’uranio hanno delle attrezzature simili, ma è strano che queste siano poste all’aria aperta. Le classifico come parte di un sito sospetto, la cui tecnologia dovrebbe essere approfondita, così come quella del fabbricato a fianco.

Seguo i viaggiatori che sono scesi con me. Percorriamo i lati della stazione e raggiungiamo, camminando, un piazzale, dove alcune auto stanno aspettando. Mi ricordano i taxi di Kabul, quando mi sono fatto condurre a Jalalabad. Sì: il sistema è analogo. Chiedo di essere portato a Najaf. Vengo indirizzato verso la macchina giusta. L’autista mi fa caricare lo zaino nel bagagliaio. Concordo il prezzo del viaggio. Ci sono tre giovani uomini, oltre a me, vestiti con i classici abiti bianchi e lunghi degli islamici. Il più alto, che sembra dirigere gli altri due, si siede sul sedile anteriore. Ha una barba nera, corta e incolta. Mi accomodo sul sedile posteriore, assieme agli altri compagni di viaggio. Partiamo.

La strada verso Najaf è agevole, senza curve particolari. Guardo il panorama che si può scorgere nel buio. Vedo parecchie abitazioni di pregevole realizzazione, poste al riparo di muri di cinta, illuminate da piccole lampade esterne. Rispetto all’Afghanistan, noto che l’Iraq dimostra sempre un livello di sviluppo maggiore, ma so che qui il vigore della guerra è nettamente superiore. Nell’ambito delle operazioni disposte dal Pentagono, l’Iraq presenta l’intensità di fuoco più elevata. Me lo ricordo perfettamente dal momento in cui sono stato aggregato alle truppe statunitensi. Eravamo sempre sotto il fuoco degli insorti. Qui c’è il massimo della jihad. Dormo un po’, appoggiando la testa al finestrino.

Dopo circa due ore arriviamo a Najaf. Il tassista segue le indicazioni degli altri viaggiatori, che vogliono farsi accompagnare alla propria abitazione. Seguiamo alcune stradine del centro urbano e ci fermiamo in un vicolo cieco, in mezzo ad alcune baracche costruite malamente. Scendiamo. Gli uomini prendono i loro scarsi bagagli. Improvvisamente, però, il loro capo, quello con la barba nera, estrae un revolver e fa girare il tamburo. Lo punta nella mia direzione e mi dice qualcosa. Vuole che li segua. Vogliono rapirmi. Siamo a 5 metri di distanza l’uno dall’altro.

…omissis…

La stampa di questo paragrafo è momentaneamente sospesa, per l’episodio di violenza che contiene: seguirà la versione integrale in futuro (n.d.a.)

…omissis…

I miei tre nemici si allontanano, rapidamente, infilandosi tra le casupole. Spariscono. L’autista mi dice di risalire in macchina. Non c’è più traccia dei miei aspiranti rapitori. Ripartiamo.

Vedo un chiosco illuminato ai margini di una strada. Dico al tassista di fermarsi. Scendo e recupero il mio zaino. Raggiungo il piccolo bar improvvisato con un carrello mobile ai margini di una strada. Sono circa le 4 di notte. Non c’è altro segno di vita in giro. Attorno alla baracca, c’è un gruppo di avventori. Compro un’aranciata e inizio a berla, fumando qualche sigaretta. Controllo che i soldi e i miei documenti siano al loro posto, nella tasca superiore della giacca. Devo aspettare che arrivi il giorno. Dall’altra parte della strada c’è un carro armato nero. Il busto di un militare iracheno sporge dalla torretta del blindato. Guardo il mitragliatore fissato sul mezzo. È più grande degli M16 e verosimilmente più potente. Il soldato porta sul braccio lo stemma delle Special Forces irachene, un gruppo d’élite dell’esercito. Riconosco il logo con il teschio che avevo già visto a Baghdad quasi due anni fa.

Nel 2003, la Battaglia di Najaf costituì uno dei principali episodi dell’invasione statunitense. L’anno seguente, la città fu teatro di un’ulteriore battaglia, che oppose l’esercito americano e i suoi nuovi alleati iracheni alla Mahdi Army del leader sciita Muqtada Al-Sadr. I combattimenti finirono quando le parti in causa raggiunsero l’accordo per una tregua, peraltro interrotta da sporadici momenti di fuoco nei mesi seguenti, ma Najaf restò un caposaldo per i guerriglieri di Al-Sadr durante l’insurrezione.

Alle prime luci dell’alba, il traffico della città inizia ad aumentare. Noi siamo abituati alle macchine nuove, o quasi nuove, con le carrozzerie perfette, che affollano le strade degli Stati occidentali. In Iraq, non ce ne sono. Le auto sono vecchie, scassate, rovinate. Vedo arrivare due antiquati autobus iraniani. Si fermano in uno spiazzo di fronte al chiosco. Penso che abbiano raggiunto l’Iraq a fatica e mi sembra strano che degli iraniani possano percorrere tutti questi chilometri per arrivare in una città irachena, visto il conflitto tra i due Stati che si consumò dal 1980 al 1988 e che comportò il protrarsi di ostilità reciproche. Najaf, però, è un luogo sacro per l’Islam e in particolare per gli Sciiti, siccome è sede del più grande cimitero del mondo. I pellegrini scendono dai bus. Le donne sono vestite di nero e hanno il capo coperto. Gli uomini sono abbigliati poveramente.

Verso le 7, riesco a farmi notare da un tassista. Gli chiedo di portarmi in un albergo. Guardo dal finestrino la città. Le tombe si perdono a vista d’occhio, nel panorama delle distese di terra arida e rossastra. Il centro urbano ospita un immenso cimitero, effettivamente. Percepisco l’odore dolciastro della morte, dei cadaveri in decomposizione, che pervade l’intero ambiente. L’autista si ferma davanti ad un piccolo hotel. Pago, scendo ed entro nella reception. Le impiegate hanno una carnagione biancastra, insalubre. Noto dei disegni sulle mani. Penso che possano riferirsi a qualche rito celebrativo, o funebre, che possa anche comportare dei salassi di sangue. Mi dicono che hanno una camera a disposizione. Il prezzo è sostenibile. Prendo i miei bagagli e mi dirigo al secondo piano. La camera è pulita e confortevole. Sono stanco. Sono sveglio da circa 24 ore. Mi sdraio sul letto e crollo addormentato.

Quando mi alzo è già pomeriggio inoltrato. Accendo la telecamera e inizio a filmare e a fotografare il paesaggio che vedo dalle finestre. Oltre al cimitero, noto una fornace, ancora attiva, con un movimento di persone. Riprendo tutto. Poi decido di uscire: devo recuperare delle sigarette, delle cicche, qualcosa da bere e da mangiare. Lascio l’hotel e inizio a camminare. La sabbia del deserto sporca l’asfalto. Attorno a me, vedo solo caseggiati color argilla e tombe. C’è qualche passante, ma gli arabi, vestiti con tuniche e calzati di sandali, dovrebbero essere in numero estremamente superiore per avere la meglio di un occidentale. Raggiungo un negozietto posto alle pendici di un piccolo rilievo, in cima al quale c’è una fortezza, oppure un edificio sacro. Riesco a trovare tutto quello che cercavo. Faccio un buon rifornimento dei generi per me indispensabili, tra cui non rientra il cibo. Mi accontento di mangiare solo cose confezionate: non mi fido e non mi sono mai fidato della cucina degli iracheni. Torno in albergo per risposare ancora un po’. La sera, faccio ancora una camminata in città. Poi vado a dormire presto.

Mi risveglio la mattina, per fare colazione. Eseguo il check-out verso le 11. Prendo il mio zaino ed esco. Fermo un taxi. Gli chiedo se può portarmi prima alla casa di Al-Sadr e se dopo può condurmi fino a Baghdad. Contrattiamo il prezzo. Ci accordiamo per 100 dollari. Salgo e partiamo. L’abitazione del leader sciita è posta nelle vicinanze. Quando arriviamo, l’autista mi spiega che quella è esattamente la sua residenza. Scendo e faccio delle fotografie al cancello d’ingresso. L’immobile non è sfarzoso, non è grande, ma è ben tenuto. Il tassista cerca di farsi aprire. Suona il campanello. Non risponde nessuno. Aspettiamo alcuni minuti per vedere se può arrivare qualche inquilino, ma non si muove nulla.

Riprendiamo il nostro viaggio. Destinazione Baghdad. L’auto si immette nelle principali vie di comunicazione, fino a raggiungere una specie di autostrada. I primi checkpoints mi ricordano che siamo sempre in guerra, all’interno di una rete di controlli militari. Quando i soldati mi perquisiscono, verificano i documenti, ma non ho problemi a superare ogni ispezione. Il tassista guida velocemente. La radio trasmette della musica araba, che apprezzo sempre. Guardo l’orizzonte. Ci sono ancora giacimenti di idrocarburi. Il petrolio, le granate, i missili, i proiettili, gli eserciti, i blindati, i carri armati, gli elicotteri Apache, Black Hawk e Chinook, gli spari, le esplosioni, gli aerei C-130 Hercules, i jet F16, le autobombe, le stragi, il filo spinato, le protezioni in cemento armato, le basi militari, l’asfalto bruciato dagli attentati, le mine antiuomo, la guerriglia, gli insorti, i bombardamenti, le macerie, la distruzione, gli scontri a fuoco, le fosse comuni, i morti e i feriti. Questa è la guerra: benvenuti all’inferno.

04.11.2024

Alessandro Ceresa

War Criminals

Edizione gratuita, pronta per il download, di una selezione dei principali documenti che riguardarono alcuni dei Criminali di Guerra accusati dall'Icty al termine delle guerre nell'ex-Jugoslavia.

https://drive.google.com/file/d/1Oj8ErzXzEHykNR1iBnclgS2X0OqmpOtv/view?usp=sharing 




Storie di mafia: i soldi degli oligarchi

Svizzera, 2024. Voi pensate che i soldi degli oligarchi russi siano custoditi solo nelle banche russe? Io no. Raggiungo la vicina ed evoluta Svizzera e ottengo alcune informazioni riguardanti l'intreccio di movimenti finanziari che iniziarono ad essere contestati durante l'era di Eltsin. La morte di Berezowsky fu un altro episodio importante. Raccolgo il materiale che mi attendevo e trovo anche la sede della Mabetex di Pacolli, il big boss della mafia albanese. Prendo un aperitivo in un locale in riva al lago di Lugano. Ascolto i commenti degli avventori e dei baristi. Prima di ripercorrere la storia alla base del potere degli oligarchi, riepilogo i punti più importanti che sono riuscito ad apprendere.

Boris Berezowsky, deceduto a Sunninghill, in Gran Bretagna, nel 2013, fu trovato impiccato nella stanza da bagno della residenza che aveva in uso. Alcuni elementi destarono evidentemente dei sospetti negli investigatori, come la porta chiusa a chiave. Il caso rimase ufficialmente aperto. Sulla sua testa, d’altra parte, pendeva una condanna a morte dopo gli attentati che sconvolsero la Russia nel 1999, che comportarono oltre 100 vittime e che giunsero nel momento in cui la tensione per le imminenti elezioni presidenziali del 2000 era particolarmente alta. Fonti non ufficiali, d’altra parte, avevano sottolineato come alcuni esponenti della nomenklatura interna al Cremlino stessero effettivamente pensando a delle azioni terroristiche in grado di condizionare le votazioni.

Berezowsky era una delle “intelligenze nere” dell’entourage di Eltsin, che in quel periodo era stato anche scosso dall’inchiesta svizzera riguardante la corruzione esistente ai massimi livelli del Cremlino, condotta dal magistrato elvetico Carla Del Ponte e dal procuratore generale russo Yuri Skuratov. Lo scandalo aveva messo in luce un reticolo di corruzione, tangenti e fondi esteri, capaci di coinvolgere la stessa “semya” (la “famiglia” di Eltsin). Gli attentati non ebbero una spiegazione definitiva. Fu indicata ovviamente una traccia cecena, dovuta alla guerra nella regione caucasica, ma altri elementi correlati ne misero in dubbio l’univocità. Per questi motivi, si afferma oggi, con ragionevole cognizione di causa, che Berezowsky fu ucciso dall’ex-Kgb, nonostante il magnate soffrisse anche di depressione, patologia atta a condurre a gesti estremi da parte di chi ne è affetto. Il medico legale non riuscì a giungere a una diagnosi definitiva ed erano stati registrati in precedenza anche altri tentativi di ucciderlo.

D’altra parte, l’inchiesta svizzera aveva evidenziato come gli oligarchi e i personaggi vicini alla presidenza russa utilizzassero le casseforti delle banche elvetiche per nascondere grandi capitali, proprio come oggi viene tuttora sottolineato nella ricca Lugano, confermando che la Svizzera, al pari delle Isole Cayman, di Panama e di altri paradisi fiscali, sia ancora al centro degli interessi finanziari dei ricchi esponenti russi, così come per altri traffici di denaro di organizzazioni criminali che spaziano dalla mafia italiana al Cartello di Medellin. In questo contesto, vedere il palazzo della Mabetex di Pacolli all’entrata della città lascia perplessi, ma conferma tutto.

Uomo d’affari abile e spregiudicato, Behgjet Pacolli è nato in Kosovo, a Pristina, ha origini etniche albanesi e ha ottenuto la cittadinanza svizzera. Negli anni ’90, i suoi rapporti con il Cremlino compresero la ristrutturazione dell’intero complesso, della Duma e della Casa Bianca, la sede del Governo a Mosca, nell’ambito di una commessa che arrivò quasi a un miliardo di Euro. Nonostante il core business della Mabetex rimanga il settore edile, il gruppo è attivo in altri ambiti di attività, che comprendono anche i media e le assicurazioni. Fu riportato, durante l’era di Eltsin, l’arresto di un funzionario del Cremlino che usciva dalla sede presidenziale con una valigia piena di contanti, provenienti proprio dal giro d’affari di Pacolli, che poteva contare all’interno del clan di Eltsin della conoscenza stretta con Pavel Borodin e con la figlia del Presidente, Tatiana, peraltro accusata nello stesso periodo di essersi accaparrata ingenti risorse elargite generosamente alla Russia dal Fondo Monetario Internazionale, nell’ambito della politica di sostegno al cambiamento che succedette al crollo dell’impero sovietico.

Pacolli, d’altra parte, non ha solo nel business la propria ragione di essere: fu nominato anche Presidente del Kosovo, a favore della cui indipendenza si adoperò tramite una consistente azione di lobby, e raccoglie persino un ampio consenso tramite le opere di filantropia. Le banche svizzere, però, nascondono tanti altri segreti. Il riciclaggio di denaro, proveniente anche dalle mafie italiane, è estremamente diffuso, in virtù della politica bancaria elvetica. A Lugano, l’immissione di grandi capitali ha comportato un innalzamento dei prezzi degli immobili a livelli notevoli, a fronte, d’altra parte, di limitate attività produttive. È frequente vedere macchine di grossa cilindrata riportanti targhe albanesi che attraversano la dogana a Chiasso, ridente cittadella di frontiera che confina con l’adiacente area del comasco. Tuttavia, il riciclaggio dispone oggi di strumenti digitali tramite i quali operare per mezzo di brokers internazionali, che rendono difficile il controllo delle movimentazioni finanziarie, nonostante la limitata affidabilità delle piattaforme.

La mafia russa è una grande organizzazione criminale, attiva in tutto il mondo, che aveva proprio in Berezowsky la propria figura di riferimento. Durante l’esistenza dell’Unione Sovietica, i boss costruirono le proprie fortune grazie al mercato nero e riuscirono ad impadronirsi di numerose proprietà statali collaborando con la nomenklatura dopo il crollo del regime. Presenti soprattutto nell’Europa dell’Est, finanzieri russi legati alla mafia comprarono nel 1996 il provider bulgaro dei Gsm, la Mobiltel. La società divenne nel 1997 un obiettivo dell’italiana Stet, controllata da Telecom Italia, che rinunciò alle trattative solo per rivolgere i propri interessi al  noto accordo miliardario relativo all’acquisto di una quota della Telekom serba. 

Gli oligarchi iniziarono ad operare già durante l'ultimo periodo della presidenza di Gorbaciov, nel momento in cui riuscirono ad affermarsi come imprenditori grazie ad una prima liberalizzazione di mercato. Le loro fortune esplosero durante l'era di Eltsin, nella decade degli anni '90, grazie alle privatizzazioni delle grandi compagnie statali, condotte spesso in modo inopportuno e discriminatorio, che permisero a pochi esponenti vicini al potere politico di accaparrarsi la proprietà e il controllo dei grandi complessi statali operanti nei diversi settori industriali. Nel 1996, i nuovi ricchi finanziarono la rielezione di Eltsin e poterono beneficiare di un nuovo metodo di distribuzione, a loro favore, delle partecipazioni nelle maggiori compagnie (lo schema denominato "loan for shares" prevedeva l'erogazione di prestiti in cambio di azioni, stimate ad un valore infinitesimo rispetto al loro valore reale). In precedenza, il cosiddetto "programma dei voucher", che ambì ad una prima privatizzazione, aveva permesso la concentrazione nelle mani di pochi individui di estreme quantità di ricchezza. In breve tempo, le grandi compagnie statali diventarono di loro dominio. Tra i maggiori oligarchi del tempo si possono nominare Roman Abramovich, Boris Berezovsky, Vladimir Gusinsky, Mikhail Khodorkovsky, Vladimir Potanin, Alexander Smolensky and Vladimir Vinogradov. Tra le compagnie riconducibili a Berezovsky vi furono Aeroflot, Sidanco, Yukos, Sibneft, Ort Television. 

L'ascesa al potere di Vladimir Putin cambiò qualche regola del gioco. Come ex agente dell'Fsb, Putin aveva probabilmente in animo di riformare questa situazione incredibile, in cui pochi eletti detenevano la maggior parte della ricchezza prodotta dalla Russia, mentre la popolazione faceva fatica a sostenere i prezzi inflazionati dei beni esposti nei supermercati. Mi ricordo chiaramente a Mosca, nel 2002, gli anziani che si allineavano sul marciapiede, nei pressi delle fermate della metropolitana, seduti per terra, con davanti a sé una cassetta di legno, che serviva per esporre la poca merce in vendita: frutta, verdura, fiori... Altri alimentari, oppure oggetti, erano offerti per pochi rubli dalle bancarelle o da venditori improvvisati. Mosca è la capitale di un grande impero, quello sovietico. Con 12.000.000 di abitanti si posiziona tra le città più popolose del mondo. Il contrasto tra ricchezza e povertà a volte è stridente. Negli ultimi 20 anni, ci sono stati parecchi cambiamenti e la modernità avanza in ogni contesto: dagli edifici, alle infrastrutture, ai trasporti. 

Nonostante il supporto che gli aveva inizialmente fornito, Berezowsky diventò un fermo oppositore di Putin, il quale iniziò a perseguire alcuni dei maggiori oligarchi, tra cui Khodorkovsky e Gusinsky. Costretto all'esilio, Berezowsky si scontrò anche con Abramovich e subì una pesante sconfitta in sede giudiziaria, che segnò inevitabilmente il suo declino. A Londra, raggiunsi la sede di una delle sue società, situata in un quartiere del centro. Non vi era alcuna attività lavorativa. Entrai dalla porta e mi trovai in una stanza con le pareti scure, in cui solo un'impiegata mi fornì i riferimenti di contatto aziendali. 

In Russia, il potere ultraventennale di Putin ha implicato molti cambiamenti, in ogni ambito di analisi (politico, economico, sociale, geopolitico). Nonostante, in maggior parte, gli esponenti di riferimento siano variati, il sistema rimane ancora lo stesso. Nuovi oligarchi hanno sostituito i precedenti. Le sanzioni imposte nei confronti di alcuni di loro da parte dell'Unione Europea, però, non hanno compreso una serie di nominativi che per le istituzioni occidentali potrebbe diventare scomodo importunare. Tra le figure più rappresentative di questo nuovo sistema di potere vi sono spesso dei rappresentanti di interessi riconducibili all'industria bellica. Così come le lobby statunitensi riescono a fomentare guerre e instabilità, allo stesso modo la presenza di commesse militari esorbitanti a favore di imprese operanti nel settore della difesa russo getta un'ombra addizionale sulla guerra in Ucraina. 

Ci sono alcuni nomi che appare opportuno menzionare, quindi, tra gli oligarchi che controllano grandi epicentri economici: Leonid Mikhelson, Gennady Timchenko (proprietari delle società Novatek e Sibur), Vagit Alekperov (proprietario del gigante del petrolio Lukoil), Vladimir Lisin (Novolipetsk Steel), Vladimir Potanin, Viktor Vekselberg, Iskandar Makhmudov, Andrei Bokarev, Vladimir Yevtushenkov, Aras Agalarov, Albert Avdolyan, Sergei Adonyev, God Nisanov, Aleksey Repik... Le loro connessioni con l'Europa, inoltre, sono frequenti. Per questo, ci si chiede se il segreto bancario svizzero sia così attrattivo anche per loro. In pratica: dove sono tutti i miliardi degli oligarchi russi, passati e presenti? 


Alessandro Ceresa

24.10.2024

Storie di mafia: il Crimine

La ‘Ndrangheta è governata da una struttura di vertice: il Crimine. E’ difficile capire chi lo possa comporre. Le persone non forniscono informazioni esplicite. Ma ne parlano…e questo ne conferma l’esistenza. Come Cosa Nostra, quindi, anche l’organizzazione calabrese conferma di avere tuttora una gerarchia precisa, nonostante i passati arresti. Il Crimine, o Provincia, si pone infatti come una commissione all’apice assoluto dell’intera ‘Ndrangheta, sia nella regione, sia nel resto d’Italia, sia a livello internazionale. Ne discende che ai vari gradi vi sono ruoli ben precisi e che il sodalizio ‘ndranghetista è infine unico, nonostante ovvi contrasti che possono sorgere tra le varie ‘ndrine malavitose, o tra le “locali”, che ne costituiscono i raggruppamenti di zona. Ma il Crimine è così potente da costituire il riferimento per le diramazioni presenti in tutto il mondo. 

Per comprendere la struttura della ‘Ndrangheta si può partire dall’alto. Il Crimine “è di tutti” diceva Domenico Oppedisano, scelto come capo dell’organizzazione e arrestato nel 2010. Ma effettivamente questa commissione è composta sostanzialmente, secondo chi indaga, dai rappresentanti dei tre grandi mandamenti in cui si divide la Calabria: Jonico (detto anche Montagna, che comprende l’Aspromonte), Tirrenico (o Piana) e Reggio Calabria (o Centro, ovvero Città). Tra i primi due assumono rilevanza gli agglomerati di San Luca e Rosarno. Nelle fila dei clan dei mandamenti, vengono scelti gli esponenti di spicco. Al loro fianco, ci sono i collaboratori più stretti, che risultano fondamentali per la trasmissione e l’imposizione degli ordini derivanti dalle decisioni. Si tratta di ordini perentori, vincolanti, che affiliati e non affiliati devono rispettare. Non ci sono alternative, anche se le direttive provengono da boss minori, pena l’applicazione di ritorsioni concrete. Gli “sgarri” non sono contemplati.

La libertà individuale e di azione, comunque, si intreccia con le linee guida. È facile comprendere come peraltro l’appartenenza all’organizzazione manifesti i propri vantaggi, soprattutto in termini economici, per cui l’adesione è incentivata. Questo fa comprendere il movimento univoco dell’organizzazione, che si dirama verso il basso, fino a giungere agli elementi di base: le ‘ndrine (a carattere familiare, secondo un concetto di "famiglia estesa") e le locali. È vero d’altra parte che gli uomini della ‘Ndrangheta, i militari, devono seguire un percorso di ammissione che comporta anni di tempo, ma è altrettanto vero che praticamente l’intera popolazione calabrese è parte della ‘Ndrangheta, o perlomeno contigua. Per questo si parla anche di Società. L’appartenenza permette la diffusione del sodalizio fino ad arrivare al livello internazionale, con l’espansione in altri Stati d’Europa e in altri continenti. La ‘Ndrangheta ha però origini storiche, antiche, evidenziate dai gradi che vengono riconosciuti, in commistione con la fede cattolica: Santa, Vangelo, Capobastone, camorristi, sgarristi. In tempi moderni, assumono rilevanza persino altri ruoli: i cosiddetti brokers della ‘Ndrangheta, ad esempio, sono capaci di trattare lo scambio di 2/3 tonnellate di cocaina per volta e di operare direttamente in Colombia, a contatto con gli esponenti delle Farc, oppure con i cartelli del Messico in America Centrale.

Il Crimine è sovraordinato ai tre mandamenti e si riunisce solo per questioni particolarmente rilevanti. Storicamente, la leadership è appannaggio di San Luca, in virtù del noto Santuario della Madonna di Polsi, sede delle riunioni della Provincia, ma il peso di Rosarno ha un’importanza considerevole. Il 2 settembre di ogni anno, Festa della Madonna di Polsi, i boss si riuniscono presso il Santuario, dove decidono in merito a contrasti ed alleanze, strategie ed operazioni. È a Polsi che viene scelto il Capo-Crimine. La struttura dei tre mandamenti fu istituzionalizzata dopo la seconda guerra di ‘Ndrangheta, che comportò circa 600 morti. Assumono rilievo, all’esterno della Calabria, anche le Camere di Controllo di Liguria, Lombardia e Piemonte, così come le diramazioni in Australia e Canada. Tutte le locali dipendono dal Crimine, ma sono autonome nel proprio territorio. Il Capo-Crimine è temporaneo. Al suo fianco, ci sono il Capo-Società e il Mastro Generale. Complessivamente, la ‘Ndrangheta ha un giro d’affari stimato a livello internazionale di 150 miliardi di Euro l’anno. Oltre al narcotraffico, dominante, i suoi business comprendono estorsioni, usura, traffico d’armi, gioco d’azzardo, rifiuti tossici e radioattivi. I ricavi vengono quindi riciclati nell’economia ordinaria, tramite investimenti in attività produttive e nel mercato immobiliare, soprattutto. A livello internazionale, nei 5 continenti, si innescano le alleanze con le organizzazioni delinquenziali locali. In tutto questo contesto, però, la Calabria vive e si sviluppa con difficoltà. E' tutto il sistema che non funziona. I giovani sono in fuga...


24.09.2024

Alessandro Ceresa

Storie di mafia: quando Bossi vendette la Giustizia (e la Lega) alla mafia

L’alleanza tra Bossi e la mafia fu sancita dalle elezioni del 2001 e costituì un elemento di notevole importanza, per le vicende del partito e per la storia della politica italiana. Le cene di Arcore a Villa San Martino con Berlusconi, l’intesa per la costituzione della Casa delle Libertà e l'affermazione elettorale condussero il leader della Lega Nord a ratificare la connessione con la mafia a due livelli: uno politico ed uno interno al partito. Il primo fu sancito dalla nomina di Castelli come Ministro della Giustizia. Tra i peggiori ministri della Seconda Repubblica, Roberto Castelli si distinse per le aggressioni comandate nei confronti della magistratura (giunse fino ad inviare degli “ispettori”) e per gli interventi a tutela della posizione di Silvio Berlusconi, che per i noti e molteplici motivi inerenti le sue vicissitudini imprenditoriali e personali era indagato in numerosi processi. I provvedimenti a favore dell’illegalità si moltiplicarono. Fu questo il segno distintivo della svolta che Bossi aveva voluto imprimere alla politica della Lega: per continuare a cercare di raggiungere il suo obiettivo federalista/secessionista/autonomista, il Senatur non ebbe rimorsi ad appoggiare politiche corrotte e mafiose.

Sul piano interno, la nomina di Castelli ebbe un effetto molto forte: l’allora ministro diventò l’esponente di riferimento di tutti i personaggi ambigui e disonesti che appartenevano al partito, ai quali da quel momento fu permesso di prendere l’egemonia. La “mafia Lega” fu ben contenta di poter iniziare a “mangiare” soldi pubblici tramite le alleanze che le permisero, anche negli ambiti amministrativi più bassi, di spartirsi ruoli, poltrone, affari, finanziamenti, contributi, commesse e appalti. In breve tempo, una classe di incompetenti, ignoranti, famelici e corrotti politici e politicanti estromise dal partito la classe dirigenziale precedente, più professionale, idealista e rivoluzionaria. Si comprende così il fondamentale aspetto economico. Bossi vendette effettivamente la Giustizia (e la Lega) alla mafia, sia a livello parlamentare e governativo, sia a livello locale. Questa vendita comportò le spartizioni indicate in precedenza, a cui si sommarono, in virtù del mercato della pubblicità, crescenti promozioni e sponsorizzazioni, raccolte dai media del partito (e lautamente incassate).

Per ovviare ai consensi calanti, che avevano ridotto le percentuali di voto a favore della Lega, il partito si volse interamente alla ricerca di suffragio popolare tra la società italiana, in particolare del Nord Italia, in maggioranza “mafiosa”. I rappresentanti politici della Lega iniziarono ad avere caratteristiche sempre più scarse, come notiamo tuttora. L’ostilità nei confronti della Giustizia e quindi il perseguimento di una politica mafiosa e deviata rimasero un elemento caratteristico della politica della Lega, che proseguì fino ai giorni nostri, orchestrato adesso da un personaggio come Salvini, che, senza un titolo di studio universitario e con il patentino di giornalista ottenuto scrivendo lettere fittizie dei lettori, continua la politica mafiosa, delinquenziale e indecente che fu inaugurata nel 2001, propria del voto di scambio politico-mafioso (art. 416-ter c.p.). Il movimento fu coinvolto costantemente in inchieste per reati e corruzione. Di fatto, un nuovo "sistema" di spartizioni partitocratiche sostituì quello scomparso con la Prima Repubblica, fondato sulle distribuzioni tra Pentapartito (in particolare Dc e Psi) e Pci. In un sistema-Paese che soffre le inefficienze della pubblica amministrazione, il problema risulta essere ancora rappresentato dagli amministratori stessi.

Non c’è da stupirsi, quindi, se vediamo riforme della Giustizia a tutela dei delinquenti e dei mafiosi, o norme limitative delle intercettazioni, di cui i politici hanno estremamente paura per via dei loro “affari”. E in tutto questo, attualmente, Nordio, un ex-magistrato, assume un ruolo personale, ricordandoci “il corvo” della questura di Palermo (Alberto Di Pisa), o il giudice “ammazzasentenze” della Cassazione (Corrado Carnevale). In uno scenario simile, i politici sguazzano tranquilli, proteggendosi a vicenda, proteggendo la loro “casta”.

17.09.2024

Alessandro Ceresa

Storie di mafia: la ‘Ndrangheta, le ‘ndrine, la gente

Calabria. Resto stupito dall’accoglienza positiva che ricevo dalle persone. I calabresi si rivelano un popolo educato e gentile, nonostante tutte le difficoltà che sperimentano. Fieri ed orgogliosi, comunque, gli uomini sono espressione dell’ambiente aspro e poco generoso in cui vivono, ma riescono a mantenere una socialità inaspettata. Personalmente, io sono scontroso, diffidente e poco socievole. Apprezzo la cortesia che mi viene offerta. Sono arrivato a Reggio Calabria con un volo di linea da Milano. Noto subito che l’aeroporto è modesto. Attraverso in macchina la periferia del capoluogo.

Mi trovo immerso in una nuova atmosfera. Non credo quasi ai miei occhi. Le case non ultimate, spesso lasciate senza finiture esterne, o addirittura abbandonate in fase di costruzione, costellano l’autostrada che collega Reggio a Salerno. Proseguo nel mio itinerario. Passo alcuni centri noti. Guardo i nomi degli svincoli: Campo Calabro, Scilla, Palmi. Osservo la natura circostante, a tratti arida, a tratti verdeggiante, impervia, inospitale e poco incline alle coltivazioni.

Raggiungo la mia prima meta: Gioia Tauro. Quando esco dall’autostrada mi ritrovo di nuovo in un mondo incredibile: immobili in rovina, allo stato di ruderi, oppure lasciati in stato di avanzamento arretrato dei lavori di costruzione, strade malconce e piene di buche, marciapiedi sconnessi, negozi ed esercizi commerciali abbandonati, serrande chiuse e rotte, verde pubblico non curato, rifiuti ai margini delle vie. Mi chiedo dove sia lo Stato, che tramite le proprie diramazioni amministrative dovrebbe assicurare minime condizioni di urbanizzazione.

Parlo con la gente. <<Qui, negli anni, si sono succedute molte amministrazioni, ma hanno sempre rubato tutti. Spesso il Comune è stato commissariato per colpa dei legami con la criminalità. Adesso c’è un nuovo sindaco. È un’avvocatessa. Potrebbe cambiare qualcosa>>. Guardo i giovani, in cui nutro sempre fiducia. Si trovano a vivere nel mondo che hanno realizzato le generazioni precedenti. Sarà compito loro cercare di migliorare i livelli di sviluppo, di progresso.

Il controllo del territorio è notevole. Due uomini si fermano a parlare a voce molto alta di fronte alla mia camera. Esco e li incontro. <<Devi andare a Scilla, o a Tropea: è molto meglio di qui>>. Durante le mie giornate, riesco di volta in volta ad individuare i fornitori che mi occorrono: la farmacia, i bar, il tabaccaio, muovendomi tra le strade che attraversano i quartieri di questa città impensabile. Faccio riposare la mia schiena, distrutta dal lavoro. Zoppico e cammino piegato, a volte, come un novantenne.

Gli abitanti di Gioia Tauro escono soprattutto la sera, quando le ore di maggior caldo sono finite. Li ascolto. Raccolgo storie, informazioni e aneddoti, che mi permettono di capire la loro realtà. <<Il più grande è ancora Pesce>>. Capisco che il boss egemone della zona appartiene alla locale che comanda a Rosarno, ma a Gioia Tauro la leadership è tuttora dei Piromalli, affiancati dai Molè. <<A Rosarno hanno più militari e sono armati meglio>>. I “militari” sono gli uomini della ‘Ndrangheta, gli affiliati alla consorteria, che hanno ottenuto il grado di appartenenza ufficiale. Ma la ‘Ndrangheta comprende tutto il tessuto della società.

Il mio interesse è il porto, che si estende a nord della marina, delimitato da reti metalliche e filo spinato, controllato dalle telecamere. Giunta a rappresentare uno dei maggiori scali d’Europa, l’infrastruttura calabrese è nota per essere destinazione e punto di smistamento di tonnellate di cocaina, secondo la rotta classica che prevede il trasporto di “robba” dal Sud America all’Europa, tramite navi. <<Il principale mercato è il Nord America e il traffico è in mano ai clan sudamericani e messicani. Noi siamo secondi>>. Con un po’ di modestia, i calabresi parlano della loro concorrenza a livello mondiale. La cocaina trattata dai Piromalli giunge anche all'estero, dove il clan è noto. A volte si sente persino dire che la "cocaina rosa" prende questo nomignolo dalla stessa città di Rosarno. 

I porti di tutta Europa rappresentano i fondamentali punti di approdo della droga importata da Colombia, Brasile, Ecuador, Venezuela,… I calabresi giungono fino ad avere nella zona le “raffinerie” in cui viene tagliata la coca purissima. La loro collaborazione con le altre organizzazioni criminali è consolidata in tutto il mondo. Grazie all’affidabilità che si sono conquistati, i brokers della ‘Ndrangheta riescono a trattare con qualsiasi cartello criminale, dalle Farc colombiane ai gruppi messicani, brasiliani, o quant’altro.

Il porto di Gioia Tauro fornisce lavoro a circa 1.300 persone ed è controllato della ‘Ndrangheta. Non potrebbe essere altrimenti, vista la diffusione dell’organizzazione. Però, vi è di più. Secondo rapporti precisi dell’antimafia, l’infiltrazione della ‘Ndrangheta raggiunge le autorità. Sento parlare con piccoli accenni di complicità e di soddisfazione di Adm (Agenzia delle Dogane e dei Monopoli), così come sento parlare di “mazzette”. Apprendo dai rapporti istituzionali che l’intera attività del porto è sotto il dominio delle locali criminali: assunzioni, appalti e subappalti, servizi, forniture, trasporti. Tra le righe, alcuni sussurrano che molti altri porti fanno da “pivot” della cocaina, in tutta Europa, da Marsiglia a Genova, ma Gioia Tauro è fondamentale. Alcune persone nominano i <<corrieri>>.

<<Dicono che siamo la mafia più ricca, ma qui non si vedono i soldi>>. La gente si lamenta della povertà diffusa. <<Se hai tante persone, la torta da spartire può essere anche grande, ma le porzioni poi diventano piccole>>. È qui che si capisce il “ruolo sociale” della ‘Ndrangheta, così come di Cosa Nostra e della Camorra, che assicurano alle moltitudini di loro affiliati una parte dei propri proventi. <<Il punto è che il fatturato può essere anche notevole, ma poi devi fare i conti con i margini>>, ovvero con quello che residua dopo aver pagato tutti coloro i quali partecipano all’attività criminosa. Il malcontento esprime alcuni elementi rilevanti. <<Possono esserci anche dei miliardi, però dopo gli investimenti sono diretti altrove e non nella nostra regione>>.

Di fronte a tanto dissesto, a tanto disagio, i calabresi iniziano a farsi delle domande. Perché investire in tanti immobili e in tante attività al Nord e in Stati esteri? È vero: perché la ‘Ndrangheta dirotta i capitali verso Roma, Milano, altre città e altre zone d’Italia, d’Europa e del mondo, quando l’area natia piange e fa fatica a vivere in un tessuto produttivo disastrato?

Quando arrivo a Rosarno, trovo una situazione leggermente diversa, anche se in ogni caso disagiata. La cittadella, arroccata, è un po’ più laboriosa. Gli esercizi commerciali sono aperti, c’è una maggiore dinamicità, più movimento. Le espressioni degli abitanti sono dure, ferree. Vedono un estraneo. Rosarno: Guns ‘N Roses, rivoltelle e rose. Mi piace questa tensione. Denota il centro di interessi da proteggere. Le faide, i contrasti, forgiano il carattere degli uomini. Come la povertà, che li rende pronti a tutto, capaci di affrontare qualsiasi situazione, per potersi garantire un’esistenza dignitosa. Da questo ambiente, la ‘Ndrangheta trae i suoi soldati.

<<Siamo stati a San Luca per 4 anni. Era peggio. Non c’era nulla>>. Una mia amica mi racconta qualche dettaglio della sua esperienza nell’abitato dell’Aspromonte. <<Formalmente, sono tutti nullatenenti, poi vedi che hanno macchine costose, vestono con capi firmati. Partono con un’auto e tornano con una nuova>>. In Calabria, spesso i negozi e i bar rifiutano i pagamenti con Pos. Altrettanto spesso, non emettono scontrini fiscali. Il giro di denaro nero è notevole. L’economia sommersa affianca quella illegale.

<<Ci vuole un Piano Marshall per la Calabria>>. Un giovane scherza in merito alle condizioni di difficoltà ambientale e urbana che ci circondano. Occorrono sicuramente degli interventi massicci, ma ogni stanziamento non può essere ovviamente lasciato a sé stesso: deve essere gestito e monitorato correttamente. La mancanza di queste caratteristiche cela una parte dei problemi della Calabria. Si dovrebbe programmare un’azione concreta, in cui le amministrazioni assicurino un ruolo fondamentale, tenendo bene presente che la 'Ndrangheta da sempre si finanzia anche tramite le commesse pubbliche, per cui la funzione di controllo diverrebbe essenziale. Altrimenti, i risultati sarebbero ancora identici.


27.07.2024

Alessandro Ceresa

Download gratuito: Progetto di ricerca "Biofuels for the Future - Biocarburanti per il Futuro"

Ricerca scientifica in materia di biocarburanti, carburanti di seconda e di terza generazione, liberamente consultabile



9 Maggio 2024

Storie di mafia: le vie dell’eroina

Il drogato si avvicina a noi barcollando. Ci chiede se abbiamo “un po’ di moneta”, mostrandoci le mani. <<Mi sono ustionato e devo comprare la cremina in farmacia>>. Io e il mio collega, fermi a parlare dopo il lavoro, gli spieghiamo che non abbiamo nulla, ma lui insiste: <<mi serve un po’ di moneta per la cremina>>. Gli ribadiamo il diniego. Si muove leggermente. Rispondiamo in malo modo e lui decide di andarsene. Siamo in una cittadella dell’hinterland milanese. Qui il problema della droga è ancora evidente.

Durante una pausa pranzo, abbiamo assistito ad una scena incredibile di compravendita di eroina. Lei, la tossica, percorreva la strada, muovendosi tra le macchine parcheggiate e guardando al loro interno. La “vedetta” si è diretta fino all’inizio della piccola via. Poi ha dato un segnale al suo compagno, fermatosi nei pressi di un’edicola abbandonata. Gli ha fatto capire con un cenno della testa che era tutto a posto ed è tornata indietro, rimanendo tra le vetture in sosta. Il drogato si è quindi spostato di una decina di metri, sedendosi sulla panchina di un piccolo parco. Noi siamo entrati nel bar che ci ospita di norma a mezzogiorno. Con la scusa di fumare una sigaretta, mi sono posizionato sul pianerottolo di questo bar sfortunato, che in pochi mesi di attività è già stato rapinato due volte, nonostante i sistemi di allarme. Il tossico era sempre fermo sulla panchina, ma a un certo punto è arrivato lo spacciatore, il “suo uomo”, che, non capendo niente, non lo ha visto e ha continuato a camminare sul marciapiede, con i denti che sfavillavano in contrasto con il colore nero della pelle. Alzatosi dalla panchina, il tossicodipendente lo ha chiamato. I due si sono quindi incontrati e hanno concluso l’affare.

La presenza di innumerevoli eroinomani non è una novità da queste parti. Mi ricordo due ragazze giovani, incrociate durante un caffè al banco. Ho bene in mente la situazione del paese adiacente, che di notte, per via della scarsa frequentazione e dell’urbanizzazione desolata, mi ricorda il quartiere newyorkese del Bronx. In questa piccola area suburbana, gli eroinomani ubriachi, nel 99% dei casi di origine araba, non si contano. Mi riprometto di parlare con il mio amico psicologo psicoterapeuta, per chiedergli quali sono tutti gli effetti desolanti e devastanti della droga sulla psiche, oltre al fatto che la “roba”, di qualsiasi genere, brucia il cervello, inesorabilmente. I neurotrasmettitori e le cellule cerebrali vengono danneggiati senza rimedio. A 30 anni, questi “scoppiati” non connettono più.

Potrei raccontare altre decine di episodi simili e narrare di altrettanti personaggi, ma la domanda che mi faccio è un’altra: come è possibile che nel 2024 l’eroina abbia tuttora un mercato così diffuso, al pari delle altre droghe? Cerco in internet “le vie dell’eroina”, i percorsi utilizzati dai grandi trafficanti per far giungere gli stupefacenti in Occidente. Gli oppiacei prodotti nel Sud-Est Asiatico (Myanmar, Laos e Tailandia) sono perlopiù destinati al mercato oceanico e a quello statunitense, invaso anche dalle sostanze esportate da Colombia, Messico e Guatemala. L’eroina che raggiunge l’Europa viene prodotta perlopiù in Afghanistan e nei Paesi limitrofi. L’eroina bianca e l’eroina brown sono quindi importate tramite una rotta principale, che attraversa Iran, Turchia e Stati Balcanici. Un’altra destinazione caratteristica è la Russia, mentre una rotta secondaria transita per il Caucaso e il Mar Nero. Un terzo percorso permette alla droga di raggiungere l’Africa e da lì di essere esportata verso l’Europa. A me è chiaro come alcuni Stati, innanzitutto islamici, siano fin troppo tolleranti nei confronti di questo traffico… e mi è altrettanto chiaro come gli spacciatori e i trafficanti che operano nelle nostre città siano nella maggioranza dei casi di origine araba o magrebina… ma mi chiedo come mai non vi sia la volontà di interrompere questo mercato della morte: noi tutti, cittadini che desiderano vivere in un mondo pulito, dovremmo denunciarli; gli adepti che usano le sostanze dovrebbero voler cambiare le loro vite bruciate; i Governi e la collaborazione tra le forze di polizia, di fronte ad una tolleranza inspiegabile dei Paesi coinvolti, dovrebbero aumentare i provvedimenti.

Ma chi sono i “signori della droga”? E’ ovvio che le mafie traggono enormi profitti, pronti ad essere riciclati nel sistema economico. A differenza delle cocaina, che dal Sud America giunge in Europa soprattutto via mare, l’eroina beneficia di percorsi portati a compimento tramite trasporti su strada. Si intravede chiaramente il ruolo della mafia araba. In Italia, il mercato della droga trova un facile appoggio fornito dalle mafie locali, sempre conniventi e onnipresenti, ma il ruolo dei gruppi criminali stranieri, in particolare albanesi e africani (magrebini e sub-sahariani) è diventato dominante nel traffico di eroina, in cui Cosa Nostra è giunta ad avere un ruolo di “compartecipazione agli utili”, a differenza della storica specializzazione. Ma utili di cosa? Di morte? Di giovani distrutti nella mente e nel fisico? Se invece parliamo di chi si brucia con la cocaina e con le altre droghe, arriviamo a vedere il business principale della ‘Ndrangheta e della Camorra. Fatti e strafatti, rimbambiti dall’uso delle droghe, con i neuroni che non connettono più, molti giovani non si accorgono di chi specula sulla loro salute e della feccia schifosa che alimentano.

22.04.2024

Fotografie: Ministero dell'Interno

Testo: Alessandro Ceresa

Il Maxiprocesso

Edizione gratuita del mio sesto libro: "Il Maxiprocesso", raccolta di tutti gli atti di ogni grado di giudizio del grande procedimento contro la mafia.

https://drive.google.com/file/d/1JVtf7uZe4ipPk42pxP7LuYMHhK3cptHJ/view?usp=drive_link

25 dicembre 2023





Download gratuito: "L'Average Discounted Cash Flow come metodo innovativo e correttivo per la valutazione delle aziende"

Edizione gratuita del saggio riguardante il metodo finanziario dei flussi di cassa attualizzati medi (Average Discounted Cash Flow) per la valutazione delle aziende, che presenta un sistema matematico per la definizione dei flussi di cassa, in grado di fornire una maggiore obiettività alle valutazioni stesse, in sostituzione di stime soggettive che possono comportare problemi legati ad interessi particolari o ad asimmetrie informative (in termini di moral hazard e adverse selection).


24 settembre 2023

The Diaries of Ratko Mladic

At the beginning of July 1995, the War in Bosnia was marked by a genocide, when the troops of General Ratko Mladic captured the enclave of Srebrenica and Potocari. More than 8.000 people were killed in a few days. The operation was later condemned as a war crime by the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia. Under the copyright "Courtesy of the Icty", Dr. Alessandro Ceresa obtained the Diaries of Ratko Mladic, which were used during his trial, collecting the historical total document in the file that is possible to download at the following link:

https://drive.google.com/file/d/1CuFgygrIIyYrP27bXZqXmtjdz0jRD7p2/view?usp=sharing



Storie di mafia: Matteo Messina Denaro, le mafie, gli appalti e “i soldi”

“Iddu”…ovvero…”Lui”, in dialetto siciliano. A Castelvetrano, capoluogo dell’omonimo mandamento in provincia di Trapani, gli abitanti utilizzano questo termine per riferirsi a Matteo Messina Denaro, il capomafia inserito tra i principali latitanti, anche a livello internazionale, che la Direzione Investigativa Antimafia (Dia) definisce tuttora “la figura criminale più carismatica di Cosa Nostra e in particolare della mafia trapanese…principale punto di riferimento per far fronte alle questioni di maggiore interesse che coinvolgono l’organizzazione, per la risoluzione di eventuali controversie in seno alla consorteria, o per la nomina dei vertici di articolazioni mafiose anche non trapanesi.” Lui, ricercato da decenni, condannato per reati plurimi, tra cui omicidi e associazione a delinquere di stampo mafioso, riesce tuttora ad evitare la cattura, grazie alla rete di fedelissimi fiancheggiatori che ne permettono la latitanza. Nessuno sa dove si possa trovare e il territorio siciliano offre una molteplicità di possibili nascondigli. Gli arresti degli altri grandi capimafia (Riina, Provenzano, Raccuglia,…) potrebbero far pensare che Messina Denaro possa nascondersi proprio nel mandamento di Castelvetrano, al cui vertice si pose in sostituzione del padre, giungendo a rappresentare il sodalizio dell’intera provincia di Trapani all’interno della Cupola, fino ad essere definito il leader di Cosa Nostra, per l’influenza sovraprovinciale che riusciva ad avere, anche in virtù dei legami tra la mafia trapanese e quella palermitana.

All’inizio del mese di settembre, una maxi operazione condotta dai Ros dei Carabinieri e dal comando provinciale di Trapani ha condotto all’arresto di 35 persone, con 70 indagati, accusati di favorire la latitanza del boss. Messina Denaro compare anche tra i mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, quando, ancora giovane, partecipava alle riunioni della struttura apicale di Cosa Nostra, durante la leadership di Totò Riina.

Ci sono degli identikit che mostrano l’aspetto che potrebbe avere oggigiorno il boss, adesso sessantenne, tratti dall’ultima fotografia originale disponibile, quando era in giovane età. Il grosso naso e la grave miopia, che lo costringe a portare gli occhiali, forniscono le indicazioni più rilevanti. In passato, tra i suoi parenti, furono arrestati anche la sorella Patrizia e Francesco Guttaduro, il nipote prediletto, figlio di Giuseppe Guttaduro, già noto per essere un abile “mediatore” tra interessi economici, politici e mafiosi. A pochi chilometri da Castelvetrano c’è Mazara del Vallo, dove fu catturato il fratello di Totò Riina, Gaetano, adesso agli arresti domiciliari. Nel 2020, furono incarcerati numerosi fiancheggiatori di Messina Denaro, tra cui Francesco Domingo, ritenuto boss di Castellammare del Golfo, posto al vertice del collegamento tra le articolazioni mafiose trapanesi e Cosa nostra statunitense.

“Segui i soldi”: seduto nei bar e nei ristoranti posti nei dintorni di Castelvetrano, ascolto i commenti degli avventori, incuriositi dalla mia presenza e disposti a pronunciare mezze frasi con piccole informazioni. Guardo una Ferrari grigia percorrere la strada a fianco dei pub. “I Guttaduri”: gli avventori del locale in cui mi sono fermato sibilano parole in codice. “Alessio…qua…”. Alessio era il nome che Matteo Messina Denaro usava per firmare i pizzini che inviava a Bernardo Provenzano, riguardanti le attività da svolgere da parte della consorteria mafiosa, che prediligevano, già allora, lo svolgimento di funzioni economiche. Il riferimento al luogo potrebbe far pensare che Messina Denaro riesca davvero a celarsi nei dintorni. 

“Le auto”, “le discoteche”: i commenti proseguono e mi fanno intendere che il capomafia mantiene tuttora interessi economici nella zona, che possono, in ipotesi, comprendere concessionari d’autovetture, supermercati, immobili, ristoranti, resorts, pizzerie, locali. Mi viene in mente che le attività economiche a lui riconducibili possano essere attribuite, direttamente o indirettamente, a suoi familiari e che possano essere molteplici. Cerco di individuare i posti più lussuosi. Acquisto o consumo qualcosa, pago con il bancomat e tengo la ricevuta o lo scontrino. Messina Denaro era un agricoltore, in gioventù. Leggo le etichette delle bottiglie di olio. Le ragioni sociali delle varie società non mi forniscono informazioni particolari. Le dissimulazioni giuridiche che possono impiegare gli esperti sono plurime, al fine di celare le proprietà reali. Penso che gli investimenti immobiliari possano ricoprire sicuramente un ruolo interessante e che possano costituire un obiettivo principale di riciclaggio dei capitali della mafia. Gli arresti e le confische di beni eseguiti negli anni hanno peraltro confermato che Messina Denaro e Cosa Nostra si rivolgono adesso soprattutto alle infiltrazioni nel tessuto economico, nelle imprese operanti in Sicilia e altrove. Le centrali del riciclaggio tramite le quali l’organizzazione criminale, divenuta “azienda”, riesce a “pulire” i proventi derivanti dalle attività illecite possono essere molteplici. Per poterle individuare, si dovrebbero effettivamente seguire “i soldi”, ovvero la presenza di ingenti quantità di risorse finanziarie, magari suddivise tra i diversi prestanome.

In passato, i sequestri di patrimoni illegali nella zona colpirono ad esempio il gruppo Grigoli, che gestiva la catena di supermercati Despar nel trapanese. Di recente, le indagini condotte dalle forze dell’ordine hanno permesso di individuare e confiscare innumerevoli proprietà per miliardi di Euro. Castelvetrano, d’altra parte, non presenta un tessuto industriale particolare, nonostante raggiunga quasi 30.000 abitanti, ma colpisce il fatto che esistano, soprattutto nella zona a sud del centro, numerosi esercizi dediti al settore terziario e soprattutto al commercio, con i relativi investimenti, appartenenti persino a marchi di livello nazionale. Si vedono cospicui lavori edili in corso di realizzazione. La mafia trapanese, scrive la Dia, è da sempre orientata a perseguire i propri “affari”. Ai margini della strada che conduce a Selinunte vedo numerose ville, poste al riparo di muri di cinta e cancelli. Mi impressiona un intero immobile, situato in periferia, tappezzato di cartelli elettorali e contraddistinto dall’insegna “Comitato elettorale”. C’è da chiedersi chi possa pagare tutto questo impegno politico. E’ facile ricordarsi anche delle spese pazze della Regione Sicilia, che in veste di regione autonoma ha ampie capacità finanziarie.

Insanguinata dalle storiche guerre di mafia e da contrasti tuttora attuali, la società siciliana ha deciso di volgere la propria azione allo sviluppo economico e di limitare i contrasti. In questa direzione, si inseriscono, in un’ottica più ampia, sia le alleanze con le altre organizzazioni criminali (la ‘Ndrangheta, la Camorra, la Stidda, la rampante mafia nigeriana,…), sia l’attenzione posta verso le rappresentanze politiche, soprattutto verso l’influenza che la Sicilia è in grado di avere nei confronti di chi comanda a Roma. Questo fatto discende dalla linea che ha voluto imprimere Matteo Messina Denaro.

Non mi piace parlare di politica. Penso che abbandonare la politica aiuti l’evoluzione di un pensiero indipendente. Mi piace narrare la verità, la verità sputata in faccia, oltraggiante, nuda e cruda. La sfera politica è in ogni caso un elemento di analisi che deve essere compreso nel momento in cui si parla di Cosa Nostra. Innanzitutto, mi colpisce come l’ultima relazione semestrale della Dia indichi molto correttamente il riferimento alle collusioni tra i gruppi criminali e i loro esponenti, da una parte, con i politici e i rappresentanti delle amministrazioni, dall’altra. Oltre alle quantità di risorse finanziarie provenienti dai tradizionali canali delle attività criminali (spaccio di droga, estorsioni, prostituzione, usura, omicidi, gioco d’azzardo, traffico d’armi,…), infatti, è chiaro come le organizzazioni mafiose si debbano sostentare, non solo in Sicilia, ma in tutto il territorio nazionale, tramite gli enormi flussi di denaro pubblico provenienti dagli appalti, o dalle leggi di finanziamento, o dalle sovvenzioni di carattere persino europeo. Gli esempi di tali connessioni sono numerosi.

Il Codice degli Appalti, che costituisce la normativa di riferimento per le commesse pubbliche, da un lato ha progressivamente regolato un settore che permetteva innumerevoli abusi, ma consente tuttora, tramite il sistema degli affidamenti diretti e delle valutazioni preferenziali delle relazioni tecniche nelle aggiudicazioni, possibilità di scelte estremamente discrezionali in capo alla pubblica amministrazione, tramite le quali possono essere favorite le realtà economiche vicine o appartenenti alla criminalità. Mi ricordo l’ascesa dei Corleonesi, spesso capaci, tramite l’intervento di Vito Ciancimino, di farsi aggiudicare miliardi di lire di appalti pubblici. In ogni Comune, diventa però facile individuare le responsabilità, poste in capo agli amministratori, ovvero agli esponenti politici, e agli uffici tecnici, preposti alla gestione degli appalti stessi.

È in questo senso che la politica assume un’importanza che, d’altronde, non avrebbe… Ed è in questo senso che la mafia siciliana è da sempre attenta alle dinamiche politiche, perché queste ultime le permettono di accaparrarsi capitali ingenti. Non penso che nessun partito sia esente da collusioni, per questo motivo. In ogni evenienza, la mafia è sempre pronta a stringere alleanze con chi effettivamente si trova ad esercitare il potere politico. Storicamente, mi ricordo le connessioni dei mafiosi con il Pentapartito e con la Democrazia Cristiana in particolare, nonostante vicissitudini che a tratti si espressero in modo contrastante. Curiosamente, a livello internazionale, in un periodo storico caratterizzato dalla Guerra Fredda e dalla necessità di contrastare l’espansionismo sovietico, tale alleanza poté persino fregiarsi del benestare degli americani, intenzionati a mantenere in Italia dei Governi geopoliticamente orientati al contrasto del comunismo, anche se, ovviamente, vista la diffusione della società mafiosa in Italia, prima il Pci e il Centro-Sinistra in seguito non furono assolutamente esenti da connivenze palesi.

Questo sistema entrò in crisi con il decadimento e la fine della Prima Repubblica, innescati da Tangentopoli. Da allora, diventò chiaro il voto delle regioni del Sud Italia, contraddistinte dai fenomeni criminali più evidenti (ma non per questo meno diffusi che al Nord), a favore di quei partiti che avrebbero potuto difendere gli interessi finanziari dei sodalizi. Un esempio può essere fornito dal progetto del Ponte sullo Stretto di Messina, chiesto a gran voce da Cosa Nostra e ‘Ndrangheta in quanto foriero di possibili miliardi di appalti, presentato da diversi Governi anche a livello europeo al fine di ottenere i finanziamenti in oggetto. Marcello Dell’Utri fu condannato a 7 anni di carcere, definitivamente, dalla Corte di Cassazione, nel 2014. Tra le motivazioni poste alla base della sentenza di primo grado (risalente al 2004) si legge “La pluralità dell’attività posta in essere da Dell’Utri, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa Nostra, alla quale è stata tra l’altro offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici”. E ancora: “Vi è la prova che Dell’Utri aveva promesso alla mafia precisi vantaggi in campo politico e, di contro, vi è la prova che la mafia, in esecuzione di quella promessa, si era vieppiù orientata a votare per Forza Italia nella prima competizione elettorale utile e, ancora dopo, si era impegnata a sostenere elettoralmente l’imputato in occasione della sua candidatura al Parlamento europeo nelle file dello stesso partito, mentre aveva grossi problemi da risolvere con la giustizia perché era in corso il dibattimento di questo processo penale.”

In altri termini, fu constatato che le mafie sono in grado di ottenere propri rappresentanti tra i parlamentari. Il concetto espresso nella sentenza può essere costantemente applicato a qualsiasi partito od esponente politico, o appartenente al mondo della finanza. Mi vengono in mente alcuni nomi di imprenditori siciliani. Noto (e mi è facile giudicare) come l’azione concertata dei politici corrotti sia in grado di promuovere leggi in grado di minare il sistema di diritto posto, con le sue difficoltà, a contrasto della criminalità. Mi è sufficiente vedere le proposte di legge riguardanti temi come l’indebolimento delle misure di prevenzione severe a carico dei mafiosi, o le intenzioni di debilitare la magistratura nello svolgimento del suo difficile compito. Ricordo, a proposito, il “papello” di Riina, con le pretese inoltrate nell’ambito della trattativa Stato-mafia. Al di là della propaganda politica, si può valutare l’azione politica mafiosa dalle leggi promulgate a favore dell’illegalità.

Le ultime elezioni hanno evidenziato un enorme consenso per il Movimento 5 Stelle al Sud. Questo non significa, per il momento, che vi sia una collusione consolidata con il fenomeno mafioso: si tratta di un aspetto che fa comprendere come la stretta correlazione di questo partito con il reddito di cittadinanza evidenzi il disagio economico di individui e famiglie nel Meridione. In questo contesto, si comprende quanto scrive la Dia, in merito al ruolo “sociale” della mafia, che assicura risorse finanziarie ai propri adepti e alle loro famiglie, diventando un fenomeno difficile da estirpare. La società mafiosa, ovviamente, asseconda, favorisce e sostiene le attività economiche dei soggetti a lei appartenenti. In antitesi, però, la mafia crea povertà: aggredisce l’imprenditoria, ostacola gli investimenti, indebolisce il sistema di diritto, impedisce la crescita economica. Noto ad esempio la rete autostradale siciliana. I collegamenti tra i maggiori centri sono stati completati e il sistema infrastrutturale è quasi a posto, ma non vi sono investimenti privati, le aree di servizio sono rarissime, o inesistenti, le zone di sosta sono invase da rifiuti. L’edilizia privata mostra allo stesso tempo immobili non completati, o finiture non realizzate. Mi è chiaro che il Sud Italia ha grandi possibilità di crescita, per merito della cultura diffusa e dell’ambiente unico. Ritengo che l’autoimprenditorialità possa essere una soluzione e che per questo debba essere favorita.

“Segui i soldi”…può anche voler dire…”Denaro è qui”… Ho lasciato Castelvetrano in mattinata, dopo aver scattato un po’ di fotografie alla zona commerciale. Guardo gli impianti eolici posti ai margini della strada che conduce verso Salemi. Alcuni imprenditori della zona, operanti proprio in questo settore, furono arrestati in passato con l’accusa di essere fiancheggiatori di Messina Denaro. Trapani è una bella città. A tratti, il centro esprime ricchezza. La periferia, a differenza di Palermo, non mostra zone particolarmente degradate. Apprezzo sempre l’affabilità, la cordialità e la gentilezza dei siciliani. Solo in alcune occasioni, mi è capitato di percepire un certo grado di tensione nei rapporti interpersonali: a Corleone, ad esempio, ma anche a Castelvetrano, forse in virtù del fatto che si tratta di luoghi in cui la tradizionale appartenenza mafiosa è molto diffusa. Posso testimoniare che alla Favarella, quartiere palermitano dove si trovava la villa del boss Michele Greco, sede delle riunioni della Cupola, vi è tuttora un preciso controllo del territorio da parte degli uomini del clan. Ho avuto la stessa impressione a Castelvetrano.

“Verso Zangara”: ripenso alle ultime parole che mi sono state sussurrate. La Contrada Zangara è una zona a est di Castelvetrano, particolarmente nota, per il fatto che molti terreni appartenevano alla famiglia D’Alì, che aveva avuto alle proprie dipendenze sia Matteo Messina Denaro, sia suo padre Francesco, mentre la proprietà di altri appezzamenti era stata ricondotta esattamente allo stesso boss latitante e a Totò Riina.

Seduto ad un tavolo del Grand Hotel et des Palmes di Palermo, rileggo quanto ho scritto di getto, cercando di fornire un quadro complessivo, cercando di ricapitolare le informazioni più importanti e di integrare la narrazione. Ho raggiunto il centro della città percorrendo per l’ennesima volta l’autostrada proveniente dall’aeroporto. Ho visto il memoriale dedicato alla strage di Capaci nei pressi dello stesso svincolo. Mi chiedo, nel momento in cui i politici propongono variazioni peggiorative delle norme antimafia, se non provano vergogna, di fronte al ricordo di Falcone, di Borsellino e di tutti gli uomini che hanno perso la vita per colpa della mafia. Il Grand Hotel et des Palmes presenta un’atmosfera dorata. In passato, fu teatro di fatti misteriosi. Vi morirono lo scrittore francese Raymond Roussell, in circostanze oscure, nel 1933, una spia inglese, accoltellata alla schiena, nel 1937 e un agente segreto americano, precipitato dalla finestra, nel 1961. L’aspetto più interessante del Grand Hotel è però costituito dal fatto che la struttura fu sede nel dopoguerra, di incontri tra faccendieri, mafiosi ed esponenti del mondo dell’economia e della politica. Nel 1956 vi si tenne il primo summit mafioso della Cupola siculo-americana, organizzato da Lucky Luciano, che condusse anche in Sicilia alla costituzione di una Commissione Interprovinciale, la Cupola, formata dai principali boss, volta a decidere in merito ai contrasti interni all’organizzazione. In questa atmosfera, mi tornano in mente i romanzi di Leonardo Sciascia.

Vi è attualmente un cambiamento all’interno della mafia. Ai vecchi esponenti dei clan criminali, si affiancano costantemente e ottengono sempre maggior peso, in tutta Italia, i rappresentanti dell’economia mafiosa. Posso confermarlo, avendo bene in mente le dinamiche della mafia al Nord. A Castelvetrano si sente dire che comunque l’egemonia regionale è tuttora in mano ai gruppi di Palermo e di Corleone, perché nel capoluogo transitano i maggiori capitali. Attraversando la città, nonostante l’architettura a tratti barocca, a tratti bizantina, apprezzabile, di numerosi immobili, rilevo il degrado di molti quartieri, fatiscenti, che fanno comprendere come la situazione economica, per molte persone, sia fragile. La leadership della ‘Ndrangheta nell’ambito del traffico di stupefacenti è riconosciuta a livello internazionale. Dal porto di Gioia Tauro passano tonnellate di droga. Cosa Nostra agisce ad un secondo livello. Palermo oggi è divisa in 7 mandamenti (San Lorenzo – Tommaso Natale, Resuttana, Porta Nuova, Pagliarelli, Ciaculli, Villagrazia Santa Maria di Gesù, Passo di Rigano Bocca di Falco, della Noce), ai vertici dei quali vi sono le principali famiglie egemoni. Finita la stagione stragista, gli omicidi correlati all’attività mafiosa sono sporadici. Cerco di sintetizzare un pensiero che mi propongono molte vicende storiche: ricordatevi che la vita è una sola; se uccidete qualcuno, passerete il resto della vostra in carcere.

Alessandro Ceresa

26 settembre 2022