Abbiamo
attraversato il deserto, costellato di impianti petroliferi. Sono riuscito a
fotografare le fiamme del gas naturale che fuoriesce dalle loro estremità,
sprecando idrocarburi, così come accade a causa delle perdite di petrolio degli
oleodotti che percorrono tutto l’Iraq. Il viaggio non ha comportato problemi,
anche se siamo stati fermati spesso ai checkpoints dislocati lungo il percorso.
Nei pressi della città, prima del ponte sull’Eufrate, il grande fiume che
attraversa l’abitato di Nassiriya, ho visto un sito interessante, probabilmente
una raffineria o una centrale termoelettrica.
È la quarta volta che raggiungo l’Iraq. Conosco la guerra, conosco la gente, so come muovermi. Capisco però che sono un occidentale e che quindi sono considerato un nemico. In serata, ho trovato un hotel. Ho visto la città di notte, tra ristoranti e bar illuminati. Questa mattina, camminando nelle strade polverose di Nassiriya, ho raggiunto il luogo in cui, il 12 novembre 2003, un attentato alla base militare dei Carabinieri causò la morte di 19 uomini del contingente inviato in Iraq nell’ambito della missione Antica Babilonia, a supporto dell’invasione statunitense. Ho fotografato l’immobile, interamente ricostruito, che adesso ospita la Camera di Commercio irachena. Sono rimasto un minuto in silenzio, fermo, in segno di omaggio verso i nostri caduti. Il pensiero non è potuto che andare a loro. A fianco dello stabile, ho notato una garitta traforata da proiettili. Ho quindi trascorso il pomeriggio tra la camera dell’hotel e qualche passeggiata nelle vie adiacenti. Adesso riprendo il mio itinerario, che ho programmato da tempo: The Road to Baghdad, la strada per Baghdad. Voglio raggiungere via terra la capitale irachena, che peraltro conosco perfettamente. Ho scelto con cura le varie tappe.
Aspetto il
treno fumando qualche sigaretta ai margini dei binari, controllando, come i
viaggiatori di tutto il mondo, di essere sulla banchina giusta. Quando il
convoglio arriva in stazione, chiedo conferma al capotreno e salgo a bordo. Mi
siedo in una delle cabine. Non bado molto agli altri passeggeri. Il convoglio
riparte verso nord e inizia a sfrecciare nel buio. Le carrozze oscillano
vigorosamente. Le molle del treno sono molto elastiche. Ad ogni sobbalzo, ci si
alza di 10 centimetri, per poi ricadere verso il basso. Guardo i vetri
scheggiati dai proiettili vaganti. È l’Iraq. C’è la guerra. Fuori non si vede
nulla. Il treno sfreccia nell’oscurità della notte. Parlo con un ragazzo che si
è seduto quasi di fronte a me. Riusciamo a capirci grazie a qualche frase in
inglese. Mi regala un piccolo libricino. <<È il Corano>>, mi dice.
Me lo consegna con cura e mi raccomanda di tenerlo. Ottengo dal controllore le
indicazioni corrette in merito alla fermata di Al-Diwaniyya. Quando la
raggiungiamo, verso le 2 di notte, scendo dalla carrozza e inizio ad osservare
la piccola stazione di questo centro urbano posto in mezzo all’Iraq. Una serie
di apparecchiature cilindriche emette un sibilo e attira la mia attenzione.
Potrebbero essere turbine. Gli impianti di arricchimento dell’uranio hanno
delle attrezzature simili, ma è strano che queste siano poste all’aria aperta.
Le classifico come parte di un sito sospetto, la cui tecnologia dovrebbe essere
approfondita, così come quella del fabbricato a fianco.
Seguo i viaggiatori che sono scesi con me. Percorriamo i lati della stazione e raggiungiamo, camminando, un piazzale, dove alcune auto stanno aspettando. Mi ricordano i taxi di Kabul, quando mi sono fatto condurre a Jalalabad. Sì: il sistema è analogo. Chiedo di essere portato a Najaf. Vengo indirizzato verso la macchina giusta. L’autista mi fa caricare lo zaino nel bagagliaio. Concordo il prezzo del viaggio. Ci sono tre giovani uomini, oltre a me, vestiti con i classici abiti bianchi e lunghi degli islamici. Il più alto, che sembra dirigere gli altri due, si siede sul sedile anteriore. Ha una barba nera, corta e incolta. Mi accomodo sul sedile posteriore, assieme agli altri compagni di viaggio. Partiamo.
La strada verso Najaf è agevole, senza curve particolari. Guardo il panorama che si può scorgere nel buio. Vedo parecchie abitazioni di pregevole realizzazione, poste al riparo di muri di cinta, illuminate da piccole lampade esterne. Rispetto all’Afghanistan, noto che l’Iraq dimostra sempre un livello di sviluppo maggiore, ma so che qui il vigore della guerra è nettamente superiore. Nell’ambito delle operazioni disposte dal Pentagono, l’Iraq presenta l’intensità di fuoco più elevata. Me lo ricordo perfettamente dal momento in cui sono stato aggregato alle truppe statunitensi. Eravamo sempre sotto il fuoco degli insorti. Qui c’è il massimo della jihad. Dormo un po’, appoggiando la testa al finestrino.
Dopo circa due ore arriviamo a Najaf. Il tassista segue le indicazioni degli altri viaggiatori, che vogliono farsi accompagnare alla propria abitazione. Seguiamo alcune stradine del centro urbano e ci fermiamo in un vicolo cieco, in mezzo ad alcune baracche costruite malamente. Scendiamo. Gli uomini prendono i loro scarsi bagagli. Improvvisamente, però, il loro capo, quello con la barba nera, estrae un revolver e fa girare il tamburo. Lo punta nella mia direzione e mi dice qualcosa. Vuole che li segua. Vogliono rapirmi. Siamo a 5 metri di distanza l’uno dall’altro.
…omissis…
La stampa di questo paragrafo è momentaneamente sospesa, per l’episodio di violenza che contiene: seguirà la versione integrale in futuro (n.d.a.)
…omissis…
I miei tre nemici si allontanano, rapidamente, infilandosi tra le casupole. Spariscono. L’autista mi dice di risalire in macchina. Non c’è più traccia dei miei aspiranti rapitori. Ripartiamo.
Vedo un chiosco illuminato ai margini di una strada. Dico al tassista di fermarsi. Scendo e recupero il mio zaino. Raggiungo il piccolo bar improvvisato con un carrello mobile ai margini di una strada. Sono circa le 4 di notte. Non c’è altro segno di vita in giro. Attorno alla baracca, c’è un gruppo di avventori. Compro un’aranciata e inizio a berla, fumando qualche sigaretta. Controllo che i soldi e i miei documenti siano al loro posto, nella tasca superiore della giacca. Devo aspettare che arrivi il giorno. Dall’altra parte della strada c’è un carro armato nero. Il busto di un militare iracheno sporge dalla torretta del blindato. Guardo il mitragliatore fissato sul mezzo. È più grande degli M16 e verosimilmente più potente. Il soldato porta sul braccio lo stemma delle Special Forces irachene, un gruppo d’élite dell’esercito. Riconosco il logo con il teschio che avevo già visto a Baghdad quasi due anni fa.
Nel 2003, la Battaglia di Najaf costituì uno dei principali episodi dell’invasione statunitense. L’anno seguente, la città fu teatro di un’ulteriore battaglia, che oppose l’esercito americano e i suoi nuovi alleati iracheni alla Mahdi Army del leader sciita Muqtada Al-Sadr. I combattimenti finirono quando le parti in causa raggiunsero l’accordo per una tregua, peraltro interrotta da sporadici momenti di fuoco nei mesi seguenti, ma Najaf restò un caposaldo per i guerriglieri di Al-Sadr durante l’insurrezione.
Alle prime luci dell’alba, il traffico della città inizia ad aumentare. Noi siamo abituati alle macchine nuove, o quasi nuove, con le carrozzerie perfette, che affollano le strade degli Stati occidentali. In Iraq, non ce ne sono. Le auto sono vecchie, scassate, rovinate. Vedo arrivare due antiquati autobus iraniani. Si fermano in uno spiazzo di fronte al chiosco. Penso che abbiano raggiunto l’Iraq a fatica e mi sembra strano che degli iraniani possano percorrere tutti questi chilometri per arrivare in una città irachena, visto il conflitto tra i due Stati che si consumò dal 1980 al 1988 e che comportò il protrarsi di ostilità reciproche. Najaf, però, è un luogo sacro per l’Islam e in particolare per gli Sciiti, siccome è sede del più grande cimitero del mondo. I pellegrini scendono dai bus. Le donne sono vestite di nero e hanno il capo coperto. Gli uomini sono abbigliati poveramente.
Verso le
7, riesco a farmi notare da un tassista. Gli chiedo di portarmi in un albergo.
Guardo dal finestrino la città. Le tombe si perdono a vista d’occhio, nel
panorama delle distese di terra arida e rossastra. Il centro urbano ospita un
immenso cimitero, effettivamente. Percepisco l’odore dolciastro della morte,
dei cadaveri in decomposizione, che pervade l’intero ambiente. L’autista si
ferma davanti ad un piccolo hotel. Pago, scendo ed entro nella reception. Le
impiegate hanno una carnagione biancastra, insalubre. Noto dei disegni sulle
mani. Penso che possano riferirsi a qualche rito celebrativo, o funebre, che
possa anche comportare dei salassi di sangue. Mi dicono che hanno una camera a
disposizione. Il prezzo è sostenibile. Prendo i miei bagagli e mi dirigo al
secondo piano. La camera è pulita e confortevole. Sono stanco. Sono sveglio da
circa 24 ore. Mi sdraio sul letto e crollo addormentato.
Quando mi alzo è già pomeriggio inoltrato. Accendo la
telecamera e inizio a filmare e a fotografare il paesaggio che vedo dalle
finestre. Oltre al cimitero, noto una fornace, ancora attiva, con un movimento
di persone. Riprendo tutto. Poi decido di uscire: devo recuperare delle
sigarette, delle cicche, qualcosa da bere e da mangiare. Lascio l’hotel e
inizio a camminare. La sabbia del deserto sporca l’asfalto. Attorno a me, vedo
solo caseggiati color argilla e tombe. C’è qualche passante, ma gli arabi, vestiti
con tuniche e calzati di sandali, dovrebbero essere in numero estremamente
superiore per avere la meglio di un occidentale. Raggiungo un negozietto posto
alle pendici di un piccolo rilievo, in cima al quale c’è una fortezza, oppure
un edificio sacro. Riesco a trovare tutto quello che cercavo. Faccio un buon
rifornimento dei generi per me indispensabili, tra cui non rientra il cibo. Mi
accontento di mangiare solo cose confezionate: non mi fido e non mi sono mai
fidato della cucina degli iracheni. Torno in albergo per risposare ancora un
po’. La sera, faccio ancora una camminata in città. Poi vado a dormire presto.
Mi
risveglio la mattina, per fare colazione. Eseguo il check-out verso le 11.
Prendo il mio zaino ed esco. Fermo un taxi. Gli chiedo se può portarmi prima
alla casa di Al-Sadr e se dopo può condurmi fino a Baghdad. Contrattiamo il
prezzo. Ci accordiamo per 100 dollari. Salgo e partiamo. L’abitazione del
leader sciita è posta nelle vicinanze. Quando arriviamo, l’autista mi spiega
che quella è esattamente la sua residenza. Scendo e faccio delle fotografie al cancello
d’ingresso. L’immobile non è sfarzoso, non è grande, ma è ben tenuto. Il
tassista cerca di farsi aprire. Suona il campanello. Non risponde nessuno.
Aspettiamo alcuni minuti per vedere se può arrivare qualche inquilino, ma non
si muove nulla.
Riprendiamo il nostro viaggio. Destinazione Baghdad. L’auto
si immette nelle principali vie di comunicazione, fino a raggiungere una specie
di autostrada. I primi checkpoints mi ricordano che siamo sempre in guerra,
all’interno di una rete di controlli militari. Quando i soldati mi
perquisiscono, verificano i documenti, ma non ho problemi a superare ogni
ispezione. Il tassista guida velocemente. La radio trasmette della musica
araba, che apprezzo sempre. Guardo l’orizzonte. Ci sono ancora giacimenti di idrocarburi.
Il petrolio, le granate, i missili, i proiettili, gli eserciti, i blindati, i
carri armati, gli elicotteri Apache, Black Hawk e Chinook, gli spari, le
esplosioni, gli aerei C-130 Hercules, i jet F16, le autobombe, le stragi, il
filo spinato, le protezioni in cemento armato, le basi militari, l’asfalto
bruciato dagli attentati, le mine antiuomo, la guerriglia, gli insorti, i
bombardamenti, le macerie, la distruzione, gli scontri a fuoco, le fosse
comuni, i morti e i feriti. Questa è la guerra: benvenuti all’inferno.
04.11.2024
Alessandro Ceresa