Bosnia, dicembre 2005
<<Sparagli Piero, sparagli ora>>… sparagli a
morte… la radio slovena trasmette il noto brano di Fabrizio De André. Ho
passato da poco il confine e alcuni lavori in corso sull’autostrada mi hanno
costretto a impiegare una tortuosa stradina che attraversa i boschi, per
arrivare a Lubiana. Trovo una camera in un hotel del centro. È già tardi. Dopo
aver lasciato i bagagli in stanza, faccio un giro nel quartiere. Fa freddo. C’è
solo un night club aperto sotto l’hotel. Vado a dormire. Il giorno dopo,
riprendo l’autostrada che attraversa tutta l’ex-Jugoslavia centrale. Vado
veloce, sull’asfalto che potrebbe essere a tratti ghiacciato, viste le
temperature dicembrine del clima continentale. Oltrepasso Zagabria. I rapaci
che popolano la natura circostante si affacciano sulla via di comunicazione,
appoggiandosi spesso alle reti delle recinzioni.
Ascolto la radio croata. Lo speaker dice che la Serbia
adesso ha a disposizione anche dei missili al plutonio. Guardo i cartelli
stradali. Tra poco c’è l’uscita verso Bosanski Brod. Prendo lo svincolo.
Attraverso il ponte malmesso sul fiume Sava e mi ritrovo al di là del confine,
in Bosnia Erzegovina. Parcheggio la macchina in uno spiazzo sterrato ed entro
nella casupola della dogana. Ci sono un poliziotto e una signora bionda. Ottengo
il visto di ingresso, stampato con un timbro sul passaporto. Riprendo l’auto e
inizio a seguire le indicazioni verso Sarajevo. Adesso sono nella Repubblica
Srpska, una delle due partizioni regionali dello Stato nato dalla disgregazione
dei Balcani, a maggioranza serbo-bosniaca.
Inizia a cadere una neve sottile. Le strade sono ghiacciate.
L’atmosfera è cambiata. È diventata più tetra. Il paesaggio è povero. La
brughiera di alberi secchi e senza foglie ospita talvolta dei borghi, o delle
case isolate. Mi fermo in prossimità di un’abitazione completamente distrutta
dalla guerra, colpita e incendiata. La fotografo. Da qui è passata tanta,
troppa morte. La guerra in Bosnia comportò oltre 100.000 vittime. Continuo a
guidare in direzione di Sarajevo, tra strade trafficate. Le macchine dei
bosniaci sono vecchie, antiquate, povere. Si sente l’odore acre del gasolio dei
camion. C’è un’industrializzazione antica, secondo i nostri parametri, con
fabbriche inquinanti, che fanno aumentare la nebbia grigia che è calata nella
zona.
Nevica ancora, leggermente. Il traffico procede a rilento. I
fanali e le lampadine dei freni delle auto colorano l’oscurità. Giungo a
Sarajevo verso sera. Avevo prenotato una camera in un bed & breakfast.
Telefono ai proprietari. Ci intendiamo, in inglese. Arrivo alla struttura
ricettiva. È posta in una parte della città contraddistinta da abitazioni povere.
Incontro il gestore. Mi consegna le chiavi di un monolocale posto al primo
piano di una casetta in legno. Nonostante l’aspetto esterno sia modesto, l’interno
dell’appartamento è molto pulito e ordinato. Sistemo le mie cose ed esco. È
buio. Attraverso Pijaca Markale, un insieme di casette di legno che forma un
mercato. Alcuni esercizi sono ancora aperti. Mangio qualcosa. Il massacro di
Markale, durante la guerra, causò 43 morti. Nell’ambito dell’assedio alla
capitale, le truppe di Mladic bombardarono il mercato. Questo atto di guerra fu
fortemente condannato anche in Occidente e fu utilizzato come una delle
motivazioni per l’intervento della Nato, la cui aviazione iniziò a colpire le
postazioni della Vrs, indebolendone le fila, fino a comportare, nel tempo
richiesto, la fine delle ostilità. Vado a coricarmi.
La mattina seguente, prendo la telecamera e inizio ad
esplorare la città. Raggiungo la principale arteria che la percorre. Mi pongo
di fronte al Parlamento e inizio a filmare. Le mura e le finestre dell’edificio
sono ancora annerite dai missili dell’esercito della Repubblica Srpska. Riesco
a riprendere anche un carrarmato dell’Eufor, il contingente alleato incaricato
di condurre le operazioni in Bosnia. Nevischia ancora e fa freddo. Con la
macchina, inizio ad orientarmi nelle vie urbane, tra i sensi unici e il fiume
Miljacka. Vedo un altro mezzo dell’Eufor. Parcheggio e inizio a camminare per
le strade del centro. I segni della guerra sono evidenti. I palazzi sono
traforati interamente dai proiettili degli scontri. A differenza di Beirut,
però, i fori delle pallottole sono più grandi. Deduco che le munizioni avevano
la componente esplosiva addizionale dell’uranio impoverito, che le rendeva più
potenti, detonanti.
Ogni tanto, entro in qualche bar, per riscaldarmi. La sera
esco. Giro per le vie. Faccio delle foto e delle riprese. La mattina del giorno
dopo, raggiungo in auto le alture che sovrastano il centro urbano. Mi posiziono
in un punto adatto, in mezzo alla neve. Sarajevo è una città ferita a morte
dalla guerra. Inquadro l’ampio cimitero che ospita migliaia e migliaia di
vittime, con i fiocchi del nevischio che scendono lentamente. Si sente ancora
il dolore profondo che ha attraversato questa città.
Passo i giorni seguenti nello stesso modo. Ho prenotato il
bed & breakfast fino al 31 dicembre. Giro per la città, soprattutto di
notte, vivo in mezzo alla gente, la ascolto, cerco di comprenderla, di capire
come vivono questi uomini e queste donne, a volte con il viso bianco e cinereo
e le occhiaie blu, a volte con i tratti somatici arabeggianti. Decido di fare
qualcosa per questa gente, colpita e ferita dalla guerra.
Riparto il 31 mattina. Inizio a percorrere una strada verso
nord. L’asfalto è nevoso e ghiacciato, a tratti. A un certo punto, dopo una
curva secca, vengo fermato dalla polizia. Hanno un autovelox digitale, simile
ad una telecamera, che ha rilevato la mia velocità. Ho superato il limite di
pochi chilometri e quindi mi vedo affibbiare una sanzione, pari a circa 50
Euro. Pago e riprendo il mio tragitto. Il tempo è ancora nuvoloso. La neve non
smette di cadere, sottilmente.
Arrivo a Tuzla. Leggo bene il nome della città, scritto in cirillico. Improvvisamente, vedo dei reattori nucleari. Non ci penso due volte. Fermo la macchina e inizio a filmare e a fotografare l’impianto. C’era una Chernobyl in Bosnia. Chissà cosa accadde qui durante la guerra. Ottengo la massima definizione dalle immagini.
Ormai è pomeriggio inoltrato. Procedo verso
nord, abbastanza casualmente. Arriva la notte. Al confine con la Serbia, ci
sono poche casette di legno che ospitano i doganieri. Entro e chiedo il visto.
Mi dicono che devo comprare un’assicurazione per l’auto, al fine di poter
circolare in Serbia. Non sono d’accordo, per niente. Mi rifiuto di pagare.
Riprendo la vettura, dirigendomi lungo una strada a due corsie. Vengo raggiunto
da una macchina rossa, sportiva, che mi sorpassa. Quando mi è a fianco, dal
finestrino posteriore un uomo esplode due proiettili. Sento chiaramente gli
scoppi. Poi l’auto si dilegua nell’oscurità.
…
Mentre scrivo, adesso, sono al bar, in mezzo alle
studentesse di Pavia. Non potrei immaginare di meglio. Torno ai miei ricordi.
Quella sera, era capodanno. I fuochi d’artificio iniziarono ad illuminare il
cielo dei paesi bosniaci. Raggiunsi un hotel, presi una bella camera. Il giorno
dopo, rientrai in Italia, scegliendo la strada che arriva a Trieste.