Frammenti di guerra: Natanz e il programma atomico dell'Iran

 

Iran, agosto 2006 - La gente riempie lo spazio davanti al palco. La piazza di Teheran è gremita. La manifestazione esprime lo sdegno del popolo iraniano nei confronti del regime israeliano, che ha di nuovo aggredito il Libano. La guerra continua da alcune settimane. I bombardamenti di Tel Aviv non si fermano e mietono vittime. Alcune donne espongono le foto dei morti e dei feriti. Hanno il caratteristico velo sul capo. Piangono. Hanno posto alcune candele su degli altari improvvisati. 




Gli iraniani chiedono vendetta. Gli oratori fanno sentire la propria voce con i megafoni. Alcune immagini sono dedicate a Nasrallah, leader di Hezbollah, il movimento della resistenza libanese. Nell’ambito della Guerra al Terrorismo, vedo l’aggressione di Israele al Libano come un corollario dei conflitti in corso in Iraq e in Afghanistan. La folla è agitata. Mi muovo tra di loro. Faccio delle fotografie. L’illuminazione è scarsa. Sono l’unico bianco, occidentale, in mezzo a tutti gli iraniani, ma non riscontro problemi. Quando la gente inizia a diradarsi, seguo il flusso principale e rientro in hotel.

La mattina del giorno dopo, prendo un taxi e raggiungo la casbah, nel centro di Teheran. Non ci si può immaginare l’urbanizzazione della capitale come qualla dei nostri agglomerati. In un’ipotetica scala temporale, il livello di sviluppo dell’Iran è in ritardo di circa 30 anni rispetto a quello dell’Occidente e questo aspetto viene riflesso in ogni caratteristica del tessuto economico e politico. La casbah è formata soprattutto da un mercato coperto, posto nel basamento di un grande palazzo. Ai margini, ci sono delle bancarelle, ma la maggior parte del commercio si svolge nei negozietti all’interno, le cui superfici di vendita sono separate da vetrate. Guardo gli oggetti esposti. Non vi è nulla che mi possa interessare. Ho con me alcuni travellers cheques che ho acquistato in banca, in Italia, prima di partire. Devo cambiarli. Passo un po’ di tempo nei corridoi della casbah. Gli esercizi non sono molto frequentati. Al di fuori, alcune persone aspettano il collegamento degli autobus. Vedo alcune donne. Anche loro hanno il capo coperto, nel pieno rispetto della legge islamica. Fumo un paio di sigarette e mi metto a fissarle. Normalmente, i miei lineamenti sono apprezzati. In Iran, questo potrebbe essere considerato un comportamento inopportuno, ma mi piace sempre sfidare le regole anguste e desuete.



Quando rientro all’Hotel Enghelab, che mi ospita per un paio di settimane, recupero in camera tutti i travellers cheques che intendo cambiare e raggiungo uno sportello bancario in grado di eseguire l’operazione. Ottengo i Rials che mi possono permettere di affrontare i prossimi giorni. Dalla finestra della camera, vedo l’orizzonte urbano della città. Distinguo subito il palazzo dell’azienda di telecomunicazioni statale. Scatto alcune fotografie. Si tratta di un obiettivo strategico, che potrebbe essere colpito in caso di conflitto. Al tramonto, gli altoparlanti posti agli angoli delle principali strade diffondono la preghiera del muezzin. È armoniosa, melodiosa. La sera, passeggio nelle vie buie del quartiere. Quando mi risveglio, la mattina dopo, faccio un’abbondante colazione, che sarà l’unico pasto della mia giornata, e mi soffermo nella hall ad ascoltare i dialoghi di due italiani. Decido di presentarmi. Sono dei dipendenti della Rai. Gli chiedo che programmi hanno. Dicono che vogliono raggiungere Isfahan. Gli spiego che io intendo andare a Natanz.

Ci congediamo. Il tassista che ho ingaggiato mi aspetta davanti alla reception. È un uomo di circa 55 anni, con dei grandi baffi e la corporatura robusta. L’auto, di colore giallo, è antiquata e abbastanza scassata. Salgo sul sedile posteriore. Ho con me la macchina fotografica, i documenti e un coltello. Dalla mia posizione, posso agevolmente avere la meglio in caso di contrasto con l’autista. Avrei sempre adottato questo sistema nei Paesi arabi. Iniziamo il tragitto verso Natanz. Attraversiamo la periferia industriale di Teheran e prendiamo l’autostrada. Il percorso è tranquillo. i cartelli sono scritti sia in Farsi, sia in inglese. A un certo punto, la carreggiata cambia conformazione. L’autostrada è finita e prendiamo una via a tre corsie, piena di buche, sconnessa, in cui il traffico è indirizzato sulle due corsie esterne, negli opposti sensi di marcia. La parte centrale è destinata ai sorpassi, per chi procede in entrambe le direzioni. Il tassista procede a circa 100 chilometri all’ora. Ci sono molti camion, vecchi e sconquassati, oltre a macchine più lente, che ci costringono spesso a veloci sorpassi.

Arriviamo a Qom, un abitato abbastanza popolato. Fa caldo, ci sono circa 40 gradi, l’ambiente è arido, desertico e roccioso. Il clima afoso è opprimente. L’autista mi dice che vuole fermarsi presso il monastero. Raggiungiamo lo stabile e prendiamo una meritata pausa, passeggiando nelle stanze fresche. Un ruscello d’acqua costeggia i muri. Ne bevo un sorso. Il monastero di Qom, mi spiega il tassista, è islamico, ma è dedicato alla tolleranza tra le varie religioni. Apprezzo questo pensiero. Riprendiamo il nostro itinerario. Lasciamo la via principale e prendiamo la strada laterale che conduce a Natanz. Sono sicuro che è il tragitto giusto. Lo avevo studiato sulle mappe della regione e l’autista sta dirigendosi nella direzione giusta. Ci inoltriamo verso sud, in mezzo a rocce e cespugli. All’improvviso, in mezzo all’ambiente arido e inospitale, appare il sito atomico di Natanz.



I tetti bianchi dei caseggiati si distinguono in mezzo al deserto. Prendo la macchina fotografica e scatto subito le prime immagini. Ai margini esterni del sito, ci sono le torrette militari dell’esercito iraniano. Si intravedono gli immobili posti in mezzo al perimetro. Il cancello di ingresso è controllato. So che in Occidente vi è incertezza in merito all’effettiva attività che l’Iran sta intraprendendo nell’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz, in violazione dei principi di non proliferazione atomica. Io scopro invece un sito perfettamente funzionante, operativo a pieno regime, nell’ambito dello sviluppo del programma di ottenimento di uranio arricchito volto ad alimentare armamenti atomici, voluto da Khamenei e Ahmadinejad nel contesto dell’egemonia che l’Iran vuole consolidare nell’area e nell’ottica di poter rappresentare una minaccia concreta per Israele.



Passato l’impianto, percepisco sensazioni di acuto mal di testa, bruciore agli occhi e blocco alla gola, che potrebbero essere dovute a un campo di radiazioni elettromagnetiche, alle esalazioni di gas, alle radiazioni o ad altre attività nucleari. La centrifugazione dell’uranio esafluoride UF6 origina la divisione degli isotopi più leggeri di U235 da quelli più pesanti di U238 in un numero ripetuto di fasi e permette di ottenere uranio arricchito (ad alta concentrazione di U235). La parte rimanente è definita uranio impoverito, elemento con notevoli proprietà infiammabili ed esplosive, impiegato normalmente in ambito militare. Raggiungiamo l’abitato di Natanz e ci fermiamo. 



Faccio un paio di foto e fumo una sigaretta. Poi dico all’autista di tornare al sito. La vista da sud mi permette di fotografare le altre torrette del bordo di delimitazione e, soprattutto, una postazione contraerea per il lancio di missili terra-aria, posta a difesa della struttura, posizionata in cima ad un ammasso di argilla.





A breve distanza, noto la colonna di fumo tipica di un ordigno, che si erge nel panorama desertico. Potrebbe essere un missile, sparato nell’area. Riprendo la macchina fotografica e scatto a ripetizione. Vedo le strutture cilindriche tipiche di piccoli reattori tra i capannoni bianchi e beige, oltre ad una ciminiera. Le turbine per il procedimento di arricchimento sono nel sottosuolo. Sono sicuro che l’attività atomica è notevole. La probabilità di dispersioni nocive nell’ambiente è stata ovviamente ponderata da chi ha progettato l’impianto, che infatti è stato dislocato in una zona difficilmente raggiungibile, distante dai centri abitati. Riprendiamo la strada verso la capitale.

Perfetto, il blitz è riuscito. Ho usato uno schema militare per raggiungere Natanz, una firefox, una volpe di fuoco. Imprendibile. In hotel, estraggo la scheda dalla macchina fotografica e ne inserisco una vuota. Scendo nella hall. Devo saldare il taxi. Si presenta il manager dell’albergo, Sarkoz. Saliamo al primo piano. Non c’è nessuno. I corridoi e il grosso androne sono nella penombra. Sarkoz è vestito con giacca grigia e camicia. È magro, con il viso scuro. Gli passo i soldi concordati. Li conta velocemente e annuisce. Torniamo nella reception. Passo le ore seguenti passeggiando nelle vie buie del quartiere, oppure rilassandomi nella hall, guardando gli ospiti dell’hotel e soprattutto le donne. In Iran, non ci sono bar aperti al pubblico. Forse anche questa è una regola del regime. La gente, quindi, frequenta spesso gli alberghi. Vado a coricarmi.

Quando mi sveglio, prendo subito la mappa in cui ho evidenziato la posizione del Teheran Nuclear Research Centre. Non è molto distante. Fermo un taxi e indico all’autista l’area che devo raggiungere. Quando scendo, faccio pochi passi e trovo subito il centro di ricerca che fa parte del programma nucleare. Sento un rumore continuo, simile a quello di una turbina, che proviene da un fabbricato con la copertura rotonda. Scatto subito delle fotografie. Giro l’angolo e a fianco di un caseggiato appartenente al sito vedo un militare di guardia. È armato, porta un fucile mitragliatore di grosse dimensioni, più grande anche degli M16 occidentali. Ha il fisico molto muscoloso, frutto di molte ore di allenamento in palestra. Continuo a camminare tranquillamente. Immagino che si possa chiedere come mai ci sia un occidentale vestito con t-shirt e calzoni corti, con le scarpe da ginnastica, che passa davanti ad un sito nucleare strategico. Raggiungo la parte posteriore del centro. C’è un ampio prato, delimitato da recinzioni. Fotografo tutta la zona. Ne deduco alcune informazioni. Il TNRC continua ad avere una modesta attività, ma la parte più importante del programma atomico iraniano è sicuramente posta altrove. Sono convinto che già dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il regime di Teheran avesse ottenuto la fornitura di alcune testate atomiche.



Torno in albergo. Prendo anche la telecamera e mi dirigo verso la sede dell’università, situata a breve distanza. Negli scorsi mesi, questa facoltà è stata teatro di alcune proteste organizzate dagli studenti contro il regime. Accade spesso che le università siano il motore del dissidio nei confronti delle dittature, in quanto fonti di competenze e di pensiero libero, moderno e indipendente. Fotografo e riprendo i palazzi. Poi mi dirigo verso un incrocio, dove posso filmare molteplici angoli della città. Noto una moto con a bordo due uomini che si muove a pochi metri da me. Non mi faccio problemi. Ho posto la telecamera sul cavalletto e sto preparando delle immagini stabili. Mi ritengo abile, allenato e veloce. Ho la situazione sotto controllo. Quando finisco le riprese, ripongo la telecamera nello zaino e mi incammino sul marciapiede di Enghelab Avenue. A 20 metri di distanza dall’hotel, all’improvviso, in una frazione di secondo, sento la moto accelerare alla mie spalle. Il passeggero afferra il mio zaino e riesce a prenderlo, strappando la spallina che mi permetteva di portarlo. Il guidatore accelera.

La moto si allontana. Mi metto a correre per inseguirli. Immediatamente, una macchina bianca, con una fascia arancione, si ferma davanti a me. L’autista ha dei piccoli baffi, è alto e magro. Salgo a bordo rapidamente e gli dico di inseguire la motocicletta. La macchina parte, ma non capiamo dove possano essersi diretti i due ladri. Giriamo in una delle strade principali. Ad un distributore di carburante, c’è una moto ferma, ma i due motociclisti hanno le magliette invertite. Il guidatore ha quella bianca e il passeggero quella verde, esattamente all’opposto dei due scippatori. L’autista si fera. C’è una cabina del telefono. Avviso i miei familiari di essere stato derubato. Poi dico all’ometto di riportarmi in albergo. Lo zaino conteneva la telecamera e la macchina fotografica. Sono assicurato, ma devo fare denuncia.

Riposo un po’ e dopo mi dirigo alla stazione di polizia prospicente. Faccio fatica a farmi intendere, in inglese, ma riesco a spiegare la situazione. I poliziotti mi dicono di salire su una delle loro macchine. Iniziamo a perlustrare le vie di Teheran. Arriva la notte. A un certo punto, gli agenti si fermano in prossimità di alcuni loro colleghi. Passano alcuni minuti. Poi mi presentano un uomo, che hanno appena arrestato. Mi chiedono se è uno dei miei rapinatori. Rispondo di no, non lo riconosco. Torniamo alla caserma. C’è un po’ di confusione in Enghelab Avenue. Un individuo cerca di fuggire. Un poliziotto lo insegue con la moto e lo colpisce con la ruota. Mi dicono di entrare nella sede. Ci dirigiamo al piano inferiore, in una grande stanza con decine di sedie di plastica. Mi accomodo.

All’improvviso, un ricercato viene spinto nella sala. È stato ammanettato. Ha le mani dietro la schiena. Le manette sono strette. Un agente lo spinge verso il bancone posto in fondo, prendendolo a calci. I suoi colleghi lo accolgono. Trascorre ancora del tempo, circa mezz’ora. Poi un poliziotto mi consegna un plico con la mia denuncia. Dovrò farla tradurre per poterla consegnare all’assicurazione. Mi dicono di uscire. Vado in camera. Il giorno dopo, devo inviare un articolo ad un quotidiano. Trovo un internet point. Preparo il file in formato testo. La linea del modem è lenta. Noto che diversi siti sono bloccati. Il web è controllato e limitato dal regime. Per fare un esperimento, cerco delle immagini di Pamela Anderson. Riesco a visualizzarle. Ne scarico una. È abbastanza sexy. La invio alla mia posta. Finisco di scrivere e spedisco l’articolo alla redazione. Non so nemmeno se sarà pubblicato. Gli accordi erano questi, ma le scorrettezze dei redattori del quotidiano sono spesso incredibili. Il settore dei media, in Italia, purtroppo, è gravemente malato. All’oligopolio del comparto televisivo si somma un’informazione condizionata dalla politica oltre ogni ragionevole livello di tolleranza. È uno schifo. L’opulento mercato della pubblicità è appannaggio di pochi oligopolisti, che pongono barriere all’ingresso in ogni modo, lucrando miliardi di Euro, che poi, ovviamente, vengono infine pagati dai consumatori con i propri acquisti.

Passeggiando, vedo i giovani iraniani. Sono corpulenti, atletici, palestrati. Sembrano più forti di noi. L’Occidente però ha eserciti migliori. Questi ragazzi imparano a sparare con i kalashnikov a 15 anni. Passo i giorni seguenti cercando di centellinare i pochi soldi che mi sono rimasti. Non mangio mai a pranzo e a cena. Cammino molto. Scrivo. Giunge finalmente il giorno della partenza. Raggiungo in taxi l’aeroporto cittadino. Sono vestito con jeans e maglietta. Ho messo la scheda con le foto di Natanz nel taschino di destra dei pantaloni. È quanto mi è rimasto dopo il furto. Eseguo il check-in. Per passare il metal detector, i controlli sono accurati. Devo estrarre anche la scheda con le fotografie. Mi lasciano passare. Salgo a bordo del volo Alitalia che mi deve riportare a Milano. Prendo il mio posto vicino al finestrino. L’aereo inizia a muoversi lentamente. Passiamo a fianco dell’ala militare dello scalo. Vedo i jet dell’aviazione iraniana. Sono dei Sukhoi di produzione russa. Dopo il decollo, finalmente le hostess mi fanno avere un pasto caldo. Sono parecchi giorni che non mi alimento con qualcosa di decente.

Al mio rientro, riesco a trasferire le immagini sul pc con un adattatore. Adesso, ho le uniche, rarissime, fotografie dell’impianto di Natanz in attività. Preparo un rapporto dettagliato in inglese e invio tutto ai contatti che ho selezionato: Nato, eserciti occidentali, ex-Kgb e Global Security. La guerra scatenata da Israele contro il Libano è ancora in corso. Mi ricordo di aver conosciuto Simon Peres al Meeting Ambrosetti alcuni anni fa. Cerco il contatto della sua mail e invio anche a lui il rapporto. Ormai è chiaro che l’Iran sta ottenendo materiale atomico bombabile.


21.04.2025

Alessandro Ceresa