L’esistenza di sospetti siti
atomici in Iraq è ribadita. In tutta la nazione, sono riscontrabili impianti
destinati ad attività atomiche, noti e sconosciuti. Prima che gli Stati Uniti
decidessero di attaccare l’Iraq nel 2003, la dittatura di Saddam Hussein era
stata accusata di condurre programmi militari destinati alla produzione di
armamenti illegittimi, rivolti ad aggredire le nazioni asiatiche, a
soggiogare i dissidi interni e a costituire un ampio arsenale. Durante i
decenni, il conflitto con l’Iran, le istanze di espansione verso il Kuwait, la
Guerra del Golfo, l’intenzione di vendicarsi per l’intervento svolto dalle
truppe della coalizione alleata condotta dagli statunitensi e l’avversione nei
confronti degli israeliani fornirono motivazioni per l’utilizzo di
tutti gli armamenti che Saddam riuscì a comprare, a commissionare o a
produrre. Dopo la disfatta subita dal rais di Baghdad nel 1991, dovuta all’Operazione Desert Storm, i siti sospetti
dell’Iraq furono assoggettati a monitoraggio, sanzioni e provvedimenti
repressivi. Gli investigatori esplorarono postazioni, strutture e impianti
volti a produrre armi atomiche. I rapporti di intelligence riuscirono a delineare,
fino al 2002, un notevole numero di siti, che Saddam e gli iracheni stavano
utilizzando per ampliare il proprio arsenale. Oltre
alle postazioni note, c’erano, però, in Iraq, decine di altri impianti, sfruttati
per l’estrazione di elementi atomici, o per la produzione di
elettricità tramite fissioni. La loro esistenza diventò evidente quando le
truppe statunitensi invasero l’Iraq, per condurre
l’occupazione. I siti sospetti furono
individuati grazie alle esplorazioni condotte durante la guerra imposta
dal 2003 al 2010. Le immagini satellitari ottenibili dallo spazio e alcune
fotografie permettono adesso di stabilire le coordinate di altri siti
esplorabili, che mostrano la conformazione e l’apparenza di centri di sviluppo
o di utilizzo di tecnologie atomiche. Sono evidenti i diversi livelli di
definizione degli obiettivi: mappature satellitari, fotografie aeree,
avvicinamenti terrestri, ingresso. L’indispensabilità di fermare i programmi
militari di Hussein motivò indubbiamente sia la supervisione di Washington, registrata a partire dal 1991, sia gli attacchi condotti
dall’esercito statunitense e dalle truppe alleate nel 2003. L’Operazione Iraqi Freedom fu lanciata
anche per altre ragioni e con differenti pretesti, ma decine di siti orientati
alla preparazione di sostanze atomiche dimostrarono l’utilità dei diktat
internazionali. La mancata cooperazione irachena nell’ambito delle procedure di
disarmo permise al Pentagono di deliberare legittimamente l’aggressione. I soldati
statunitensi di stanza in Iraq restarono perplessi di fronte alla
numerosità degli impianti atomici insediati nel deserto e nei centri urbani, ma
subirono lesioni da parte della
resistenza opposta dagli iracheni. Saddam decise di fabbricare un arsenale di
armi durante gli anni ‘70. L’Iraq si procurò il primo
reattore atomico nel 1968. I jets iraniani colpirono, nel 1980, il reattore di Osirak, che
l’aviazione israeliana bombardò ancora nel 1981, durante l’Operazione Opera. Con un’azione fulminea, i jets
entrarono nello spazio aereo iracheno e bersagliarono il sito. L’Iraq
stava per preparare plutonio da utilizzare in ambito militare. Tel Aviv decise
di impedire il progetto. Il programma atomico continuò:
Hussein importò materiali radioattivi e decine di impianti con tecnologie duali,
stabilendo differenti siti di sviluppo. Saddam ordinò
l’approvvigionamento di materiale fissile: uranio 235 (altamente arricchito) e
plutonio 239, le cui capacità esplodenti permettono di fornire agli ordigni
potenziali pari a diversi megatoni (tonnellate equivalenti di Tnt). Furono acquisiti
sia i disegni per costruire i congegni esplosivi delle testate
atomiche, sia i macchinari per l’arricchimento dell’uranio. Gli impianti di Al
Tuwaitha, Tarmiya, Al Furat, Rashdiya, Ash Sharqat, Al-Jazira e Al Qaqaa
ospitarono la maggior parte delle ricerche, destinate a comporre ordigni
analoghi alla bomba che colpì Nagasaki nel 1945 (Fat Man), adatti ad essere condotti a destinazione da vettori Scud. I missili di proprietà del regime furono perfezionati, per
giungere a gittate di 650-1.000 km, adatte a colpire Teheran e altre nazioni
asiatiche. Le varianti e le testate prodotte internamente furono definite Al
Hussein, Al-Abid, Tammuz I, Fahad, Condor II, Badr 2000, FK120, Sakr 200, Al
Hijarah, Al Samoud, Al Ababil, J-1 e Al-Abbas.
Fu intrapreso un programma, indicato come Operazione Babylon, per la
realizzazione di una Supergun, atta a lanciare proiettili aventi diametri di
100 cm fino a 600 miglia. Durante la Guerra del Golfo e all’inizio
dell’Operazione Iraqi Freedom, Saddam non utilizzò in modo particolare i propri
armamenti illegittimi. Gli aerei statunitensi bombardarono Al Tarmiya, Al
Tuwaitha e altri siti. Dopo il 1991, gli esperti delle Nazioni Unite
supervisionarono le demolizioni di missili, siti e impianti, imposte dalla procedura di disarmo.
L’annientamento, però, non riguardò tutto l’arsenale del rais, che proseguì i
propri programmi. I siti incriminati dimostrarono di essere numerosi. Nel 1998,
Stati Uniti e Gran Bretagna lanciarono l’Operazione
Desert Fox, volta a bombardare
postazioni destinate alla produzione di armi illegittime, vista
l’opposizione del regime nei confronti del monitoraggio dei caschi blu.
L’aggressione durò pochi giorni e coinvolse le truppe statunitensi
dell’aviazione e della marina, disposte nella regione del Golfo Persico,
supportate dai Tornado dell’esercito britannico. I missili alleati colpirono
obiettivi strategici e ristabilirono
il bilanciamento geopolitico, contenendo le smanie di Saddam e irrobustendo il
ruolo delle autorità internazionali. Alla fine di ottobre 2002, la Cia presentò
un rapporto relativo ai programmi iracheni. Gli agenti dell’intelligence
statunitense evidenziarono che, dopo il 1998, quando Saddam proibì le
investigazioni dell’Onu, <<molti analisti affermarono
che l’Iraq stava ricostituendo il programma per le armi atomiche>>. Nel
1991, Hussein era stato obbligato dalle Nazioni Unite a dichiarare e a
distruggere il proprio arsenale, sotto la supervisione dei
caschi blu o dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Persa la Guerra
del Golfo, per la quale fu stabilito un lauto indennizzo, il regime di Baghdad
fu costretto ad accettare il disarmo imposto dagli statunitensi. Le sanzioni si
dimostrarono convincenti. Per evitare il diktat del Pentagono, gli ufficiali
dell’esercito iracheno iniziarono manovre volte a ostacolare gli accertamenti e
a nascondere le prove dell’esistenza dell’arsenale incriminato, rifiutandosi di
cooperare. Nonostante le limitazioni, il rais conservò missili aventi un raggio d’azione superiore al limite di
150 km previsto dai divieti internazionali, ristabilì i siti distrutti durante
la guerra e sviluppò altre strutture. Nonostante il ritardo evolutivo, la
tecnologia a disposizione dell’Iraq era in grado di progettare testate
atomiche. La dittatura minacciava di acquisire o di produrre una quantità di
materiale fissile sufficiente. Secondo la Cia, <<prima
della Guerra del Golfo, l’Iraq aveva un avanzato programma destinato alle armi
atomiche, mirato a costruire una bomba a implosione usando uranio altamente
arricchito. 13/06/2012
Fonte: CIA