Baghdad - Iraq

Baghdad è il simbolo del conflitto in Iraq, che ha adottato, adesso, il carattere di guerriglia. La tensione si nota subito. I mezzi blindati dei militari statunitensi e iracheni, le jeep e i furgoni della polizia pattugliano le strade. I checkpoints bloccano le macchine, ma i soldati tendono a non fermare i viaggiatori. La città non mostra tanti segni di danneggiamento. A differenza di Kabul, la capitale irachena è più moderna ed è stata ricostruita velocemente. Si notano due strategie diverse, utilizzate dal Pentagono per vincere le guerre in Iraq e in Afghanistan. Si vedono rovine solo dove ci sono stati i combattimenti. Gli isolati mostrano tuttora palazzi distrutti dai colpi dei carroarmati e pareti mitragliate. Vi sono altre parti fatiscenti di Baghdad, con vie dissestate e infangate, abitazioni cadenti e mercati all'aperto, ma questi elementi sono dovuti al degrado ordinario e ai problemi di sviluppo che si riscontrano in tutto il resto dell'Iraq. Quasi tutti i vetri delle auto sono rotti a causa dei proiettili. Raramente, le guardie alzano il fucile e prendono di mira i passeggeri. I poliziotti sono armati di kalashnikov, fucili e mitragliatori. Carroarmati, tende, sacchi di sabbia, sbarramenti e ostacoli di cemento proteggono i checkpoints. I mitra escono dalle aperture. Muri di cemento e rotoli di filo spinato costeggiano le abitazioni e definiscono i corridoi di camminamento per i passanti, ma si può girare a piedi in tutta la città, di giorno e di sera. Dalle 9 in poi, le auto iniziano a diminuire ed entra in vigore il coprifuoco. Di notte, è arduo incontrare macchine in movimento. L'immondizia dei negozi brucia a fianco delle strade. Si vedono ragazzi senza un occhio o senza una gamba. La corrente elettrica si interrompe spesso. Le case dispongono di generatori elettrici e di armi. Gli abitati più grandi nascondono lanciamissili e katiusha. Gli elicotteri da guerra controllano la città: sono abbastanza precisi nell'individuare le zone e le squadre degli iracheni. I jet statunitensi sorvolano l'Iraq. Dopo un checkpoint, la gente mi fa notare le tracce di un'autobomba. L'asfalto è annerito dalle fiamme e il manto stradale è sconnesso. Gli iracheni sono inferociti dalla presenza americana. Dicono di volersi vendicare degli statunitensi e che ne uccideranno altri. Raccontano di aver visto ossa e teschi. Affermano che Baghdad è l'apice dei combattimenti della jihad. Sostengono di essere stanchi dell'effetto domino causato dagli attentati che Saddam ha fatto compiere alle Torri Gemelle. Lasciano trapelare informazioni in merito al passaggio di al-Zawahiri e di bin Laden, ovvero del suo sostituto, da Baghdad. Il loro Parlamento ha approvato l'atto che dispone il ritiro dei militari Usa nel 2011. L'utilizzo di armi chimiche è stato e resta il metodo di offesa privilegiato dalle truppe irachene, che sono fornite di armi e di attrezzature moderne e potrebbero, con il sostegno della popolazione e degli insorti, causare ingenti perdite al contingente alleato, ma vi è il timore della reazione. Il 27 novembre, un'autobomba è esplosa a qualche centinaio di metri dal mio hotel. Alla detonazione iniziale sono seguite due deflagrazioni di minore intensità. Mentre camminavo per raggiungere il posto dell'attentato, l'attenzione dei soldati iracheni di guardia ad un incrocio è stata attratta da diversi colpi di mitra. Avrei potuto ripararmi dietro un albero, se la sparatoria ci avesse raggiunto. Ho continuato a camminare. Dovevano essere proiettili sparati verso l'aria. Centinaia di persone muoiono a Baghdad, ogni anno, a causa delle autobombe, innescate come avvertimento o per ammazzare i componenti dei gruppi religiosi nemici. Al tramonto, si sentono le frasi del muezzin. La guerra civile tra sciiti e sunniti ha comportato troppe vittime, ma vi erano rancori pregressi, dovuti anche alla repressione del regime. Il 29, verso mezzanotte, un elicottero americano è stato preso di mira da tre bengala luminosi e si sono sentiti diversi spari di armi leggere. Due giorni dopo, un'autobomba ha colpito l'Accademia della Polizia, provocando 16 morti. Oggi, un'esplosione ha preannunciato un veloce scambio di spari. Agenti e militari si sono schierati velocemente verso il ponte Al Aaimmah. Una guardia ha esploso un colpo a 4 metri da me ed è rientrata subito nella propria postazione. Le persone hanno continuato a camminare, stando attente ai proiettili. Sadr City, la città del leader sciita al-Sadr, è un quadrilatero difeso da muri azzurri di cemento e reti metalliche. Avvicinarsi è difficile. Entrare è quasi impossibile. Si vedono abitazioni moderne, con parabole satellitari e antenne. Le vie attorno al perimetro sono presidiate. La cittadella è divisa internamente da una barriera, che permette di ricostruirne un terzo. Sadr City è il quartier generale dei guerriglieri della milizia sciita Mahdi Army, una fazione paramilitare fondata da al-Sadr, che può avvalersi di migliaia di adepti in tutto l'Iraq, attrezzati con armi leggere e congegni esplosivi. Esercito e miliziani controllano gli ingressi della roccaforte. In tutta Baghdad, si notano le macchine scure e gli uomini vestiti di nero delle squadre sciite. Due di loro mi hanno intercettato all'uscita di un hotel, lasciando l'auto a fianco del marciapiede, dicendo una frase riguardante al-Sadr stesso. Una pattuglia della polizia ha fermato il mio taxi, mentre stavo facendo riprese al bordo sud-occidentale di Sadr City. Dopo mezz'ora, ero accerchiato da una decina di agenti, che mi hanno tratto in arresto, siccome non avevo il permesso di utilizzare telecamere. Sono stato condotto in una base dell'esercito iracheno, tra militari e carroarmati. Un ufficiale ha registrato i dati e ha firmato dei fogli, relativi, probabilmente, all'ordine di custodia cautelare, adducendo motivi di sicurezza. I soldati mi hanno quindi portato in un'altra base, dove sono stato perquisito, schedato, fotografato e liberato dagli oggetti personali. Ho il dubbio che mi stessero pedinando fin dall'aeroporto. Sono stato costretto a seguire un secondino attraverso differenti porte. Passato un cortile, i poliziotti mi hanno fatto entrare in una cella squallida. Vi erano altre persone, distese su materassi luridi, gettati per terra. Ne ho scelto uno e mi sono sdraiato. Sono rimasto in un carcere pieno di insetti e di topi per 9 ore, dormendo a tratti, sfruttando l'ora d'aria per uscire all'aperto, guardando i militari in cortile attraverso le inferriate della finestra, evitando di mangiare cibo che avrebbe potuto essere avvelenato. Verso le 8 di sera, ho iniziato ad avvertire dei dolori. "Gas nervino" ha detto uno degli altri prigionieri. L'avevo sentito nominare anche in Afghanistan. Verso mezzanotte, i guardiani hanno iniziato a farci uscire, uno per volta. Caricato su un furgone, scortato da 6 uomini armati, ho raggiunto il quartier generale delle forze congiunte iracheno-statunitensi. Mi è stato chiarito che non avrei potuto andare a Osirak e sono stato ricondotto in albergo. La polizia mi ha piantonato, ponendo le jeep di fronte all'hotel. Gli agenti passeggiavano nella hall e occupavano stanze adiacenti. Vi potrebbe essere ancora un mandato di arresto.


03/12/2008